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di Annamaria Emilia Verre

COSENZA - Cittadina dal fascino inconfondibile per bellezze naturali e tesori d’arte: RENDE.
E’ situata a 476 metri dal livello del mare e conta, ad oggi, 35.671 abitanti.
Ricca di storia e di cultura, Rende si estende lungo il corso occidentale del fiume Crati, fino alle Serre Cosentine, innalzandosi sulle colline, dove erge maestosamente la sua parte antica, fino a scendere a valle dove si estende, su vaste aree pianeggianti, la città moderna, sede dell’ Università della Calabria : l’UNICAL, uno dei più grandi Atenei d’Italia. Per effetto e a seguito del DPR 11 Marzo 2016,  Il Comune di Rende ha diritto, nei suoi atti ufficiali, di fregiarsi del titolo di città.

CENNI STORICI:

Le origini di Rende sono avvolte da diverse leggende. Dionisio di Alicarnasso narra che intorno all’ VIII Sec. a. C due, degli oltre cinquanta figli di Licaone, re degli Arcadi, Enotrio e Paucezio ,scontenti della loro eredità, abbandonarono il regno, accompagnati dalla loro sorella di nome Arintha, donna di ineguagliabile bellezza. Peucezio approdò sulla costa adriatica dell’Italia e diede alla terra che l’accolse il nome di Peucezia (attuale Puglia); Enotrio, insieme alla sorella, si spinse oltre ,navigando il mare, successivamente denominato Tirreno, precisamente nella zona dell’odierna San Lucido, per poi salire le montagne e approdare nella località attualmente nota come “Guardìula” (odierna Nogiano). A questa nuova conquista Enotrio diede il nome di “Aruntia”, poi successivamente chiamata “Arintha” in memoria della splendida sorella che, disgraziatamente, vi trovò la morte. Il corpo dell’austera regina venne rivestito di ornamenti di argento e oro ,e seppellito, con il suo tesoro, in una profonda caverna scavata nella vicina collina. Tale località, tramandata nel tempo col titolo di “Timpa di Arintha” (Tomba di Arintha), fu venerata dai discendenti di quel popolo, i quali presero il nome di Arinthani e poi Renditani, per successive modificazioni del toponimo. Altra leggenda vuole, invece, che i fratelli erano tre Vergiglio (al quale è dedicata una via nel centro storico) Enotrio e Paucezio, i quali, essendo in fuga, accompagnati dalla sorella Arintha, sbarcarono a San Lucido dall’alto Ionio e raggiunsero a piedi il borgo. Arintha, sfinita, arrivata ai pressi della “Guardiulìa” morì. A lei, attualmente, sono state dedicate alcune vie come “Via BellaArintha” meglio conosciuta come “Paramuru” nel centro storico (la tradizione vuole che,successivamente, per questa via si fermò anche San Francesco da Paola. Il Santo come era solito fare benedisse questo luogo). Al di là della leggenda, sono certe le origini enotrie della primitiva “Aruntia,” difatti della sua opulenza ne parlò ,nel ‘600, anche Ecateo da Mileto, nonché altri storici come Stabone, Lesbico, Bisanzio, solo per citarne alcuni. De Amato la ricorda così “Arintha, nun vulgo (Renda)dicta, Oenotrorum oppi dum, inter Emolam et Surdum amnes sublimi locatum. Terra undequaquae faecunda in suis oleribus, frugibusque(…).
Ebbe una lunga evoluzione storica che passò dal periodo dell’Impero Romano alle dominazioni Bizantine, Longobarde e Saracene, fino al periodo Normanno, Svevo, Angioino e Aragonese. Ognuno di queste culture lasciò nel territorio una loro impronta. Fu coinvolta dalle idee liberali della Rivoluzione Francese, fino a giungere poi, alla proclamazione del Regno d’Italia.
Tra l’800 e il ‘900 si presenta come un’area prevalentemente agricola - artigianale. Si producevano: grano, olive, fichi (i quali ad oggi alimentano un fiorente mercato del prodotto lavorato), i gelsi per la lavorazione della seta, i c.d. “setaiuli rennitani”, la quale seta, poi, veniva tessuta, con paziente lavoro, al telaio; la produzione e coltivazione del tabacco da parte del barone Giorgelli, torinese, trapiantato a Rende nei primi anni del ‘900; la lavorazione dell’argilla che ha fornito per anni la materia prima ai c.d. “Pignatari” coloro i quali lavoravano la ceramica. Rende era sede, anche, di una enorme fiera agricola, durande l’ultima decade di agosto, nella frazione Santo Stefano (allora di proprietà della famiglia patrizia dei Magdalone) nella quale si commerciavano animali come mucche, buoi, cavalli, asini, suini , ecc. Successivamente nascono le prime industrie come “La Liquirizia Zagarese”, otto fabbriche di laterizi, industrie del legno. Oggi, si può dire, che sempre più importante sta diventando il Parco industriale di Rende che raggruppa diverse aziende operanti in vari settori e ubicate nella zona industriale.
Originariamente tutto si svolgeva nella parte antica della città la quale era caratterizzata da diversi negozi, c.d.“botteghe” ,come la “Piccola standina”, gestite per lo più da gente del luogo. Negli anni ottanta e novanta, le amministrazioni comunali spostarono tutto a valle costruendo nuove piazze, parchi, musei e Chiese, trasformandola in una città moderna, caratterizzata dalle sue meravigliose aree verdi e, dal dicembre del 2011, sede del Municipio, in Parco Rossini, accanto alla Cattedrale di San Carlo Borromeo. Oggi Rende vanta un notevole piano regolatore e un terziario avanzato. La nascita dell’UNICAL rappresentò un ulteriore punto di forza e di sviluppo del territorio. La protettrice della città è L’Immacolata Concezione, si festeggia il 20 febbraio. Nell’occasione, tutta la comunità si riunisce sotto i festeggiamenti che culminano con la consegna delle Chiavi da parte del primo cittadino alla Santa Patrona, la cui figura è simbolo della salvezza della città e dei suoi abitanti dai forti terremoti avvenuti il 17 luglio 1767 ,il 12 febbraio 1854 e il 20 febbraio 1980. 

RENDE OGGI:

Città nobilissima per memorie millenarie, il Centro Storico di Rende oggi è divenuto un pittoresco Borgo Antico, propriamente detto “Borgo dei Musei”, un vero e proprio punto di attrazione culturale. Offre al visitatore, assieme ai suoi edifici monumentali pieni d’arte e di storia, numerose altre testimonianze artistiche che ricordano il suo passato e costituiscono una interessante e concreta documentazione. Da vedere: Museo Civico ospitato nel Palazzo Zagarese, impreziosito da diversi capolavori d’arte in prevalenza meridionale, dal ‘500 al ‘700. Nasce originariamente nel 1980 come museo del Folklore e successivamente fu arricchito da una bellissima pinacoteca dedicata ad Achille Capizzano con opere dello stesso e di altri artisti locali come Mattia Preti, Pascaletti ,Santanna, ma anche di altri grandi pittori del ‘900 come De Chirico, Guttuso, Balla, Carrà, Greco, Levi, Sironi e Viani. Nel Palazzo Zagarese vi è anche un laboratorio di liuteria; Museo Dell’Arti dell’Otto Novecento (MAON) ubicato nel settecentesco Palazzo Vitari. Museo d’Arte Contemporanea “Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona” collocato nel Castello. Museo di ceramica a Palazzo Bucarelli. Cinema Santa Chiara primo cinema della provincia di Cosenza. Castello Normanno detto “Gigante di Pietra” :imponente e altero spicca sulla collina del Vaglio. Fu fondato nel 1095 per ordine di Boemondo d’Altavilla. Le tre torri rappresentano lo stemma del Comune , probabilmente la loro prima comparsa come gonfalone comunale avvenne nel 1222 per l’inaugurazione del Duomo di Cosenza alla presenza di Federico II di Svevia. Tutt’ora nel Castello è possibile ammirare due stemmi araldici appartenenti a due famiglie succedutosi nella proprietà del castello: i Magdalone e gli Alarçon de Mendoza. Di fronte, in alto, è visibile lo stemma comunale, con sotto l’iscrizione: Urbs celebris, quondam sedes regalis, Arintha (Celebre città. Antica sede reale, Arintha). Il Castello, di proprietà del Comune dal 1922, è stato sede del Municipio fino al 2011. La tradizione vuole che il maniero fosse un tempo il luogo prescelto per i torbidi amori di una marchesa, si pensa appartenente alla famiglia dei Mendoza, la quale, dopo aver giaciuto con il bel giovanotto, oggetto delle sue brame, provvedeva di persona a disfarsene: prendendolo per mano ne guidava i passi verso un punto della stanza nel cui pavimento si trovava uno sportello ribaltabile e non appena il malcapitato vi metteva sopra il piede lo faceva precipitare in un buio e profondo pozzo. Di lei si narra ancora che durante le sue cavalcate, sulle terre laddove il cavallo si fermasse, divenissero di sua proprietà.
Rende, il cui sentimento religioso ha radici profonde,soprattutto dedita al culto mariano, è ricca di numerosi edifici sacri pieni di oggetti d’arte e di fede. Solo nel centro storico si possono ammirare : La Chiesa Matrice Parrocchiale di Santa Maria Maggiore (Duomo), Il Santuario di Costantinopoli, La Chiesa del Ritiro già Abazia di San Michele Arcangelo, La Chiesa del Rosario, Chiesa Dell’ Assunta comunemente conosciuta come “Riticieddru” , Chiesa di Maria SS della Neve, Chiesa della SS. Vergine della Pietà, Chiesa di Santa Lucia e Sant’Ippolito meglio conosciuta come “A chiesa i San Giuvanni” per la presenza di una bellissima Statua rappresentante San Giovanni Battista , Chiesa di San Francesco di Assisi o di Santa Maria delle Grazie già conventuale dei Minori Francescani Osservanti (oggi Convento delle Clarisse), Chiesa di Sant’Antonio Abate. Nelle contrade non molto distanti si possono ammirare La Chiesa si San Francesco da Paola, La Chiesa di San Rocco (C.da Rocchi), La Chiesa di Maria SS. Di Monserrato (Quattromiglia), La Chiesa di Maria SS. Della Consolazione (Santo Stefano e di Arcavacata). Edifici di struttura più moderna Il Santuario della Beata Vergine di Lourdes, La Chiesa di Sant’Agostino, La Chiesa di Sant’Antonio da Padova (Commenda), La Chiesa di San Giovanni Battista (Commenda), La Cattedrale di San Carlo Borromeo. Ancora nel centro storico risaltano interessanti dimore patrizie, rifatte nel secolo scorso, orgoglio e vanto di prestigiose casate, culle di personaggi famosi ch’ebbero un ruolo determinante negli avvenimenti della storia locale: i Magdalone, i Pastore, i Perugini, gli Zagaresi, tutti più o meno del ‘500 ,che conservano intatti molti portali scolpiti e balconate in ferro battuto. La centrale “Piazza degli Eroi” meglio nota come “U Seggiu”, i suoi vicoli particolarmente stretti e le arcate d’accesso. Lasciata alle spalle la parte più antica del Comune, si scende verso valle, ove si distende la città nuova. Ci si trova a spaziare in un contesto urbano molto diverso dal precedente col quale si pone un marcato contrasto tra una parte antica e una moderna. Si può ammirare Il Museo del Presente con il Belvedere delle arti e delle scienze, la “Sala Tokio” “il laboratorio dei pensieri” e internet cafè. Il “Metropolis” primo centro commerciale della Calabria, i diversi parchi tra cui il Parco Robinson, Parco Rossini, il Parco fluviale Emoli, le sue diverse aree verdi. Rende è conosciuta come città degli artisti, dando i natali a famosi pittori, scultori, musicisti del passato ma anche attuali, orgoglio dei rendesi. Diverse sono le compagnie teatrali che rappresentano egregiamente il territorio. Ricca anche nell’arte culinaria, diverse sono le ricette “rennitane” che si possono deliziosamente assaggiare nei vari ristoranti locali: “lagani e ciciari “(tagliatelle senza uovo), “fischietti e patati a ra tieddra”, “pipi chjini”, “majatica”, “cuddrurieddri” e diversi i dolci tipici “scaliddri” “turdiddri”, “Nginetti”, “Cuddruri” e tanti altri. Rende presenta diversi eventi, sicuramente fra i più importanti rientra Settembre Rendese una prestigiosa rassegna di musica e cultura che vede la presenza di grandi nomi dello spettacolo. Vanta, inoltre, di una notevole squadra calcistica.
La città di Rende definita da molti benpensanti la “Molinella del Sud” lascia nel visitatore un profondo sentimento di meraviglia e di incanto, nonché la voglia di tornare.

Bibliografia: Rende: usanze, tradizioni, costumi. G.Giraldi 

Foto tratte dal web

 

 

Nell’entroterra siracusano, in Sicilia, inserita nello splendido scenario dei monti Iblei, nella Val di Noto, c’è la suggestiva cittadina di Palazzolo Acreide, di origini greche (dal greco “akrà”, sommità) e ricca di testimonianze di epoche diverse in cui decisamente ancora oggi si respira profumo di “barocco”. Inserita nel 2019 tra i borghi più belli d’Italia.
Santo protettore è San Sebastiano Martire, scelto dalla Chiesa come “depulsor pestis” (allontanatore di peste) e difensore della fede. Già dal 1414 anno in cui un miracoloso Simulacro del Santo approdò a Melilli (oggi libero consorzio comunale di Siracusa) il culto di S. Sebastiano si diffuse nell’area Iblea e in tutta la Sicilia. Subito a Palazzolo gli venne dedicata la Cappella presso l’antica Chiesa dell’Annunziata. La festa, che cade per la ricorrenza del 20 gennaio, si protrae fino al 27. Quindi la si replica il 10 agosto, andando a sostituire quella della Vergine Odigitria che era stata scelta come propiziatrice della buona stagione. Due celebrazioni vissute con la stessa grande venerazione, ma con un sfondo di pubblico, di spettacolarità e di folklore eccezionali con una grande risonanza che va sicuramente anche fuori dai confini locali. Otto giorni di festeggiamenti quindi a gennaio e addirittura dieci ad agosto (dal 7 al 17) che si susseguono con momenti rituali e tradizionali e momenti ricchi di iniziative più “moderne”. Tale celebrazione dal 2002 è inserita nella lista del R.E.I.L. (Registro delle Eredità Immateriali di Interesse Locale) dei “Patrimoni Mondiali dell’Umanità UNESCO”.
Un vortice di immagini, di suoni e di colori di epoche passate, accompagna un programma di tutto rispetto!
I momenti più toccanti e spettacolari sono tanti.
Già dai primi di agosto incominciano a fervere i preparativi per una festa dalle dimensioni davvero notevoli.
A partire dal 7 agosto si possono iniziare a visitare le varie mostre fotografiche e di artigianato locale allestite per la festa e si può assistere ad una serie di manifestazioni ad essa connesse come (l’8 agosto) la benedizione delle automobili e quindi “’a sirata â villa” – serale spettacolo musicale alla Villa comunale.
Il 9 è il giorno del giro di gala e della “svelata” (la rimozione del velo che copre) del secentesco Simulacro di San Sebastiano Martire, salutato dal popolo palazzolese, e anche non, acclamante. A seguire la celebrazione dei Vespri, la benedizione e l’immancabile “bacio” della Sacra Reliquia del Protettore della città Akrense.
Giorno 10 alle ore 8,15 si inizia con lo sparo di 21 colpi di cannone e la partenza del “carro del pane” accompagnato dalle bande musicali per la tradizionale raccolta delle cuddure votive (ciambelle di pane offerte al Santo ) ore 10,30, la benedizione di queste e dell’alloro (a ricordo del bosco di alloro sacro ad Adone, dove San Sebastiano, legato nudo a un albero, fu bersaglio delle frecce dei feroci arcieri della Mauritania).

 

 

Alle ore 13,00, momento clou di tutti i festeggiamenti, la suggestiva, maestosa e spettacolare “sciuta” (l’uscita) della Reliquia e del Simulacro del Santo. La piazza antistante la Cattedrale è gremita di devoti esultanti o di semplici turisti, provenienti da ogni parte della Sicilia e del mondo, giunti per ammirare questa meraviglia.

 

 

Annunciati dal suono a festa delle campane, i due artistici fercoli, sotto una pioggia multicolore di migliaia di “‘nzareddi” (piccole strisce di carta multicolori lunghe 2 m) vengono accompagnati da uno scroscio interminabile di fuochi d’artificio e dalle grida dei devoti che sommergono il simulacro, cui fa eco il suono delle bande e l’offerta di bambini nudi.

 

 

I due fercoli sorretti a “spadda nura” (sulla nuda spalla) dai portatori, vengono seguiti lungo le vie cittadine dalle devote del “viagghiu scausu” (viaggio a piedi scalzi) e dalla immensa folla dei fedeli. A seguire l’emozionante “catena umana” lungo la salita di via Fiumegrande. Alle ore 20,30 la processione serale e lo spettacolo musicale.
L’ultimo giorno, il 17 agosto, alle ore 20,30 c’è una nuova processione del Reliquario e del Simulacro di S. Sebastiano sulla sua “varicedda” (fercolo).
Per ultimo, una volta ritornato nella sua Cappella, la “velata” del Santo che resterà coperto fino al gennaio successivo.
Chiude la festa un fantasmagorico spettacolo piromusicale dalle dimensioni impensabili.

 

 

"La tradizione è una guida e non un carceriere".
(W. Somerset Maugham)

"Essere superstiziosi è da ignoranti ma non esserlo porta male"
E. De Filippo

Credo si debba scindere il significato letterale di tradizione con superstizione o ignoranza.
Nella tradizione risiede la storia, i valori ed i costumi di un popolo.
La superstizione è un rito ridondante che segue presupposti fittizi e soprannaturali, atteggiamenti irrazionali che hanno poco a che vedere con la cultura storica e tangibile di una collettività .
L’ignoranza credo sia circoscritta al grado di apprendimento o di capienza informativa e di conoscenza che un essere può acquisire. Ma questo è relativo all’individuo e non al suo costume.
Ho riscontrato, per esperienza personale, una chiusura intellettuale, stagnante, circoscritta non al costume ma al luogo. Un punto di partenza mai iniziato.
E a volte la parola tradizione veniva usata, come concetto educativo obsoleto. Un’educazione primordiale, da rispettare a scapito del buon senso e della libertà intellettuale.
Ergo non guide ma carcerieri.
Per paradosso ho riscontrato più evoluzione conoscitiva e pragmatica nelle persone più mature di età. Quelle persone che hanno tatuato nella loro pelle e scritto nella loro vita la storia.
Le incontro spesso tra i vicoli pregni di ciclamini o di mantiglie nei loro balconi.
Sono saggi, sono dei bambini saturi di esperienza, sono i nostri nonni.
Rappresentano l’ identità di un paese in provincia di Catanzaro. Costituiscono un bagaglio di esperienze, di valori in cui essi credono.
Sono dei bellissimi bauli da aprire e non da soffitte o sottotetti.
Andiamo ad aprirne uno..
Una lampada ad olio, un centrino, un vestito bianco in pizzo e, una strana bambola.
Sembra più che una bambola, un fantoccio vestito di nero, un calzino riempito di paglia e la gamba di un vecchio pantalone per l’abito.
Segue foto

 

 


Un pupazzo di stoffa: ‘a monacheda (la monachella).
Il Mercoledì delle Ceneri segna l’inizio della quaresima, tempo di penitenza e di conversione.
In Calabria gli avi appendevano ai balconi una rudimentale bambolina di stoffa vestita di nero ("monacheda"), raffigurante la Quaresima ("Corajsima"), moglie di Carnevale, rimasta vedova la notte di martedì grasso.
Entriamo nello specifico:
Corajsima era la moglie (in alcune versioni la sorella) di Re Carnevale il quale, grasso com'era, moriva il terzo giorno per aver mangiato troppo durante i festeggiamenti, lasciando sola e nella povertà la magra moglie, la quale veniva appesa ai balconi per tutto il periodo di Quaresima, per aspettare la Pasqua.
Carnevale deriva appunto dal latino carnem levare, “privarsi della carne”,
"levare la carne", Corajisima, che significa invece Quaresima, era un fantoccio che veniva appeso ai balconi per ricordare il digiuno dalla carne da attuare il mercoledì delle ceneri fino a Pasqua. A quell’epoca non esistevano i calendari, le 7 piume conficcate in una patata (o un'arancia) ai piedi della bambola servivano a tenere il conto delle 7 settimane della Quaresima , se ne sfilava una ogni domenica (alcuni la sfilavano il sabato) fino al giorno di Pasqua, giorno in cui finiva il digiuno e i cosiddetti fioretti. Nella mano reggeva fuso e conocchia, attrezzi usati negli antichi telai, per simboleggiare il "tessere" dei 40 giorni.
Segue Foto

 

 


Una remota tradizione, un fantoccio nato negli anni di totale povertà, veniva creato con materiali di riciclo, si usava un calzino bianco per creare il capo; i rimanenti ritagli di stoffa, con cui le donne cucivano i loro capi, li utilizzavano per rivestire la bambola.

 

 

 

 


Incuteva timore la corajisima?
In effetti devo ammettere che un po’ di batticuore nel vedere il risultato finale mi è sopraggiunto ma ogni tradizione nasconde in sé un proprio dogma.

 

 

 

 

LA STORIA
Siamo tra gli anni 250-251 e Catania era sotto la dominazione romana che perseguitava barbaramente chiunque professasse il cristianesimo. Il proconsole Tiberio Claudio Quinziano giunto in città con l’intento di ordinare a tutti i fedeli di abiurare pubblicamente il loro Credo, s’invaghì di Agata, una bella giovinetta appartenente a una nobile famiglia catanese di religione cristiana che riuscì a fuggire però a Palermo. Quinziano la fece cercare e scovatola, la fece riportare a Catania.
È più probabile che in realtà le mire del proconsole puntassero più alla confisca dei beni appartenenti alla facoltosa famiglia di Agata.
Comunque, saputa della sua consacrazione, le ordinò di ripudiare la sua fede e adorare gli dei pagani.
La donna rifiutò e fu affidata per un mese alla custodia rieducativa della cortigiana Afrodisia, per sottometterla alle sue voglie con violenze psicologiche, allettamenti e minacce.
Fu tutto inutile! Trascorso tale periodo la giovane fu tradotta al cospetto di Quinziano.
La tradizione ha tramandato i dialoghi tra il proconsole e la santa: “Le sofferenze che mi infliggerai saranno di breve durata, e non attendo altro che sperimentarle perché così come il grano non può essere conservato in granaio se prima il suo guscio non viene aspramente stritolato e ridotto in frantumi, allo stesso modo la mia anima non potrà entrare in paradiso se prima non farai minutamente dilaniare il mio corpo dai tuoi carnefici”. Da cui si evince la capacità della giovane di tenere testa a chi la stava giudicando con argomentazioni erudite.
Quinziano umiliato, dopo un processo burla, la condannò al carcere e alle violenze con l’intento di spezzare la resistenza della giovinetta. Fustigata, legata sull’“eculeo”, antico strumento di tortura a forma di cavalletto, quindi allungata con funi con conseguenti slogatura delle caviglie e dei polsi, e sottoposta finanche al feroce strappo delle mammelle mediante tenaglie. Mammelle che le ricrebbero prodigiosamente durante la notte grazie all’intervento di San Pietro.
Non contento di ciò la condannò all’ultima delle torture: un letto di tizzoni ardenti. Anche qui, si racconta, ci fu l’intervento divino: il corpo di Agata veniva martoriato dal fuoco, mentre il velo rosso, simbolo della sua consacrazione a Dio, non bruciava.
Agata morì in carcere il 5 febbraio 251 dando la vita nella fedeltà al Vangelo e mostrando fino all’ultimo suo respiro la vittoria di una fede incrollabile.
Il suo corpo venne imbalsamato e avvolto nel suo velo rosso.
Il 5 febbraio 252 i catanesi prelevano dalla tomba questo suo velo rosso, simbolo della purezza consacrata della donna, e lo porsero davanti alla lava che minacciava la città di Catania. La colata ebbe fine! Questo successe tantissime altre volte! Anche nel 1576, quando a Catania imperava la peste le reliquie furono portate lungo le vie della città e, giunte agli ospedali dove erano ricoverati gli appestati, questi miracolosamente guarirono e finirono i contagi. Per questi prodigi miracolosi, Agata fu proclamata santa.
Le sue reliquie furono anche trafugate e portate a Costantinopoli nel 1040.
Ma nel 1126 furono riconsegnate al vescovo di Catania Maurizio nel castello di Aci, e il 17 agosto 1126, rientrarono definitivamente nella Cattedrale di Sant’Agata, dove vengono tutt’oggi conservate in parte all’interno del prezioso mezzobusto in argento (una porzione del cranio, del torace e alcuni organi interni) e in parte dentro lo scrigno, anch’esso d’argento (braccia e mani, femori, gambe e piedi, la mammella e il velo).

LA FESTA

La famosa festa di Sant’Agata, patrona della città di Catania, ritenuta la terza festa religiosa più importante al mondo dopo la Settimana Santa di Siviglia e la Festa del Corpus Domini di Guzco in Perù, e inserita nella lista mondiale dei “Beni Etno-Antropologici Patrimonio dell’Umanità”, viene celebrata ogni anno dal 3 al 5 febbraio e richiama nella città siciliana quasi un milione di persone tra devoti e curiosi. Festa, misto di devozione e di folklore, in cui per quei giorni l’intera cittadinanza mette da parte ogni cosa per concentrarsi su di essa.
Il primo giorno, il 3 febbraio, è riservato all’“offerta delle candele”, suggestiva processione per la raccolta della cera, che va dalla “Chiesa della Calcarella”, dove i fedeli venerano la fornace dalla quale la martire uscì illesa, per arrivare fino alla Cattedrale. La tradizionale sfilata delle “candelore”, grossi ceri rappresentativi delle corporazioni o dei mestieri. Grosse e imponenti costruzioni scolpite, dorate in superficie e rivestite con decorazioni artigianali, puttini in legno dorato, santi e scene del martirio, fiori e bandiere. Le candelore, piccole “vare”, portate rigorosamente “a spalla” dai fedeli, un tempo, quando mancava l’illuminazione elettrica, avevano la funzione di illuminare il passo.


Le candelore sfilano sempre nello stesso ordine.
Ad aprire la processione è il piccolo cero di “Monsignor Ventimiglia”, chiamato affettuosamente dai catanesi: “a nicaredda” (la piccina), per via dell’esiguo peso (solo 200Kg.). Segue il grande “Cereo Rinoti” realizzato nei primi dell’Ottocento, che rappresenta gli abitanti del quartiere di San Giuseppe La Rena.
A questo fa seguito quello in stile gotico-veneziano dei giardinieri e dei fiorai: “la regina”.
Viene quindi quello dei pescivendoli, in stile tardo-barocco con fregi di Santi e piccoli pesci e per via del suo passo veloce, fa guadagnare alla candelora il soprannome di “bersagliera”.
Il cero dei fruttivendoli dal passo elegante soprannominato la “signorina”.
Quindi “i chianchieri” (i macellai), torre a quattro ordini quello dei macellai.
Dopo troviamo il Cereo Pizzicagnoli, in stile liberty, meglio chiamato “‘A fummaggiara” (la bottegaia).
Morigerata e senza scenografie è la candelora settecentesca dei pastai, “a piciridda” (la piccolina)
Quella dei panettieri, la più pesante di tutte, ornata con grandi angeli, chiamata la “mamma”.
Chiude la processione il Cereo Circolo Cittadino Sant’Agata, “‘a cannalora di Sant’Aita”, introdotta dal cardinale Dusmet.
In passato le candelore sono arrivate a essere anche state anche in numero di 28: esistevano anche quelle dei calzolai, dei confettieri, dei muratori.
La prima giornata si conclude in serata con un spettacolare gioco pirotecnici in piazza Duomo.
Il 4 febbraio è il giorno più emozionante, perché segna il primo incontro della città con la santa Patrona. Al grido di “Tutti devoti” i fedeli ammassano le vie cittadine al seguito del “fercolo” che contiene le reliquie della Santa.
Al mattino la Santa esce dalla sua “cameretta” dove è custodita tutto l’anno e di fatto dopo la cerimonia eucaristica, viene consegnata ai catanesi.


È come respirare una particolare atmosfera, come rivedere un familiare che manca da un anno. È una fortissima emozione accompagnata da grida di saluto.
Già dalle prime ore dell’alba le strade della città si popolano di devoti che indossano il tradizionale “sacco” (un camice votivo di tela bianca lungo fino alla caviglia e stretto in vita da un cordoncino), un berretto di velluto nero, guanti bianchi e sventolano un fazzoletto anch’ esso bianco stirato a fitte pieghe. Questa divisa rappresenta l’abbigliamento notturno che i catanesi indossavano quando, il 17 agosto 1126, corsero incontro alle reliquie che i due soldati della guardia imperiale bizantina, Gisliberto e Goselmo, riportarono da Costantinopoli.
Tale data di ogni anno viene celebrata la festa di mezz’agosto che ricorda solennemente il ritorno delle Sacre Reliquie in città.
Tre differenti chiavi, ognuna custodita da una persona diversa (tesoriere, cerimoniere e priore del capitolo) sono necessarie per aprire il cancello di ferro messo a protezione delle reliquie conservate nella Cattedrale. Dopo che la terza chiave leva l’ultima mandata al cancello della cameretta in cui è custodito il Busto, e il sacello viene aperto, il viso gioioso e sereno di Sant’Agata appare agli occhi dei fedeli impazienti di rivederla. Scintillante di oro e di gemme preziose, il busto, foderato di velluto rosso, viene quindi issato sul fercolo d’argento rinascimentale assieme al prezioso scrigno. Una messa solenne celebrata dall’arcivescovo precede l’inizio della processione che quindi ha inizio al grido di “Tutti devoti”.
Il “giro” della Santa per le vie cittadine dura l’intera giornata. Il fercolo attraversa i luoghi del martirio ripercorrendo gli avvenimenti della “santuzza”, che si intrecciano con la storia della città. Un percorso fatto tutto velocemente come voler evitare alla Santa il ricordo della sua triste fine. Una sosta viene fatta alla “marina” in ricordo del momento di quando, impotenti e addolorati, i catanesi videro partire le reliquie della santa per Costantinopoli. Un’altra viene fatta alla colonna della peste, che ricorda il miracolo compiuto dalla Santa nel 1576, quando la città fu risparmiata dall’epidemia. I fedeli in più di quattromila trainano la pesante macchina. Tutti rigorosamente indossando il sacco votivo trascinano a ritmo cadenzato e senza sosta, tra la folla, il pesante fercolo gridando “cittadini, viva Sant’Agata”, un’acclamazione che vuole anche significare che la Santa tra loro è viva. Il “giro” si conclude a notte fonda quando il fercolo ritorna in Cattedrale.


Il 5 e ultimo giorno della spettacolare festa sul fercolo, i garofani rossi del giorno precedente (simbolo del martirio della Santa) vengono sostituiti da quelli bianchi (simboleggianti la purezza). Nella tarda mattinata, nella Cattedrale in maniera solenne dall’Arcivescovo viene celebrato il “pontificale”. Mentre al tramonto inizia la seconda parte della processione che si snoda per le vie del centro di Catania, attraversando anche il “Borgo”. Il momento più atteso è il passaggio per la via di San Giuliano, che per la pendenza della strada tutta in salita, è il punto più pericoloso della processione. Esso rappresenta una prova di coraggio per i fedeli un ostacolo da superare. E a seconda di come lo si supera sarà un buono o un cattivo auspicio per l’intero anno.
A notte fonda superlativi fuochi d’artificio segneranno la chiusura dei festeggiamenti.
Quando i catanesi riconsegnano alla sua “cameretta” in Cattedrale il reliquiario e lo scrigno, la stanchezza la fa da padrona, la voce è quasi inesistente, ma c’è viva la soddisfazione di aver portato in trionfo la Santa per le vie della sua Catania che ripaga di quelle fatiche e riempie gli animi di gioia. Bisognerà attendere un altro anno per poter vedere nuovamente sorridere il viso della Santa, martire per la salvezza della Fede in Cristo e anche della stessa Catania.

LA FESTA OGGI 3 FEBBRAIO 2021

Purtroppo, causa emergenza Covid, alla luce delle attuali disposizioni delle competenti autorità, le celebrazioni in onore della patrona per quest’anno saranno limitate solamente ai momenti religiosi che peraltro si svolgeranno in sicurezza e in modo ristretto.
L’Arcivescovo, Monsignor Salvatore Gristina, rivolgendosi alle associazioni agatine, ha recitato: “Sappiamo che ci troviamo in un contesto speciale. Dal punto di vista interiore nulla potrà cambiare, l’amore e la devozione resteranno immutati, anzi questa privazione degli aspetti esterni sarà un’occasione di crescita nella devozione e dovrà rafforzare il nostro amore per la Santa Patrona”.
La festa per quest’anno sarà nei cuori dei fedeli che continueranno ugualmente a vestire il tradizionale bianco camice votivo, il “sacco”, e pregheranno a casa perché la Santa faccia terminare al più presto questa pandemia.

 

 

di Ivana Orlando

Alla domanda: “C'è una città, tra quelle che hai vissuto, in cui torneresti?”, ho sempre risposto che non mi mancavano i luoghi ma gli spazi. Quella porzione di nostalgia giacente su un intervallo tra forme, odori e momenti.
Sono nata a Torino, ricordo la piazzetta davanti casa mia. Sembrava immensa attraverso gli occhi di una bambina.
E i portici: lunghissimi, chilometrici. Imponenti colonne arcate di marmo fuoriuscenti dal suolo, cingevano il confine con la strada. La bellezza architettonica a misura d’uomo.
L’utilità dell’arte, non solo la sua concezione estetica e storica ma anche l’idea della forma architettonico che risponde alle esigenze dell’essere umano.
Un connubio di forme e di funzionalità che fanno di un’opera l’identità.

Lungo quello spazio, protetto dalla pioggia, dalle neve e dall’autovetture, mio padre mi portava per le prime lezioni di bici.
Infatti i portici furono costruiti in primis per permettere alla nobiltà di fare lunghe passeggiate al riparo dalla pioggia e dai raggi di sole estivi.
I nobili di allora e ora i cittadini piemontesi si trastullano, come tradizione, tra un passo e l’altro, nel prendersi un caffè, un pasticcino e buttar un occhio nelle vetrine dei negozi. Ogni tanto ci si sfiorava lo sguardo tra un passante e l’altro ma a porsi sempre al centro dell’attenzione, il protagonista era sempre il portico.
Un salotto all’aperto.
Sorreggeva le passeggiate come essere a braccetto con la storia.

Ti basta aver sorriso, aver lacrimato o gioito per dar forma e contenuto ad uno spazio.
(Ivana Orlando)

Nell’800 altri spazi porticati si aggiungono a quelli esistenti: piazza Vittorio Emanuele I (ora piazza Vittorio Veneto), poi piazza Carlo Felice, davanti alla stazione di Porta Nuova, e infine piazza Statuto.

I portici di corso Vittorio Emanuele II e corso Vinzaglio, delle vie Sacchi, Nizza, Roma, Cernaia e Pietro Micca, infine, costruiscono un anello pedonale che consente di collegare la stazione centrale di Porta Nuova e quella di Porta Susa.

 

 

Una bambina col cappottino rosso, cammina fra la folla appena rastrellata, sembra un'anima persa! Nessuno la guarda, o le da' la mano, però lei non se ne rende conto, alza la testa e ...va, coi ricci al vento.
La folla piena di paura, per l'incognita che ha davanti, è presa dall'ansia e ha già perso la sua umanità'!
Non guarda neanche quel cucciolo di donna, che cammina svelta, piena del coraggio che vien dall'incoscienza!
Non sa quel che l'aspetta, sorride a tutti, perfino ai crucchi! Quante bambine, dal cappotto rosso, ci sono oggi nel mondo, con incoscienza anche loro vanno sorridendo, finchè non incontrano il crucco di turno che le uccide!

 

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