di Giovanni Teresi
Diamante è situata ai piedi del monte La Caccia (m.1744), sul quale svetta maestoso il Massiccio della Montea (m. 1785), e si specchia nelle acque del mar Tirreno.
Il paese, a 25 metri sul livello del mare, ha il suo centro storico arroccato sugli scogli del “Trijùnu” e del “Timpùnu” che vi formano una punta naturale con la forma caratteristica di una foglia trilobata dal nome greco “trion”, che vuol dire “foglia di fico”.
Diamante, che fin al 1800 faceva ancora parte della vecchia provincia formata dalla Calabria citeriore o Citra, oggi fa parte della provincia di Cosenza, da cui dista 85 km, ed ha una superficie di circa 17,79 kmq. Il torrente che attraversa Diamante nasce dalle montagne boscose “du Sarapòtu” (Serrapodolo), in Buonvicino, e, percorrendo circa 10 km, sfocia sul suo litorale, dove oggi divide la spiaggia piccola, una volta approdo dei “vùzzi” dei pescatori, dalla spiaggia grande, richiamo turistico nel periodo estivo.
Fu per caso, durante una tempesta, che i Focesi, abitanti della Lìdia, una regione sulle coste dell’Asia Minore, eseguendo i loro primi scambi commerciali per via mare con gli Osci, Lucani ed Etruschi, scoprirono questa insenatura come una rada sicura per attraccare le loro navi mentre dovevano rifornirsi, nei paesi vicini, della merce che poi barattavano. Quando fu distrutta la città di Troia, i Focesi vi costituirono una delle principali stazioni di transito per i loro traffici.
Anche lo storico diamantese Leopoldo Pagano riferisce che in questa foce c’era il Porto Partenio o dei Focesi (Portus Parthenius Phocensium), di cui parlava anche Plinio il Vecchio, ed era situato fra la punta di Cirella e quella di Diamante: Punta Trione.
Durante la II Guerra Punica (219 – 201 a. C.), i Cartaginesi, che abitarono a lungo nella Temesiade dei Bruzi, zona tirrenica della Calabria Citeriore, fecero allargare il porto dei Focesi, adattandolo a porto militare per farci entrare la flotta navale.
Terminate le guerre puniche, il dominio di Roma si consolidò ulteriormente e si ritrovò con un’immensità di provincie da governare. Una delle priorità era di collegare fra loro dotandole di una nuova rete viaria. Fu in quel contesto che i Romani, nel 132 a.C., portando a termine la costruzione della Via Popilia, che univa Capua a Reggio Calabria, migliorarono il passo che sostituiva l’antica Via del Sale, attraverso le valli.
Così, dopo circa sei secoli, il Porto dei Focesi ritornò ad essere una stazione di traffico commerciale. Furono proprio i Romani, portati dai loro viaggi a sostare più di frequente nei pressi della foce del Torrente ,che, scambiando scaglie di mica per schegge e pietre di diamanti, diedero ad esso il nome di “Fiume del diamante”.
Diamante, dà al centro tirrenico l’irresistibile fascino di un paesaggio naturale e sembra veramente incastonato tra il mare ed i monti.
Uno studioso della zona, il prof. Orazio Campagna, nel suo libro “La regione Mercuriense”, ha scritto che il nome fosse di origine greca . “Dio e Dia sono rispettivamente un promontorio ed un’isoletta presso Amnios, a Creta; e gli Amantes erano i Peoni Greci, fondatori di Amantia città epirota i cui resti sono fra Vallona e Topeleni”. Questo popolo sarebbe vissuto presso la foce del Corvino per molto tempo lasciando al territorio il nome di Diamante, conservato poi dai futuri insediamenti. Difatti, in Grecia esiste tuttora un piccolo paese che si chiama Diamante, anch’esso con posizione sul mare. Poi, ci sono alcune leggende tramandate oralmente dagli anziani, fra le quali, una racconta di un corvo che fu visto con un diamante nel becco raccolto nel torrente Corvino e che lo fece cadere sulla spiaggia. Da questa leggenda si è preso lo spunto per la creazione dello stemma comunale che vede riprodotto un grosso diamante al centro con un corvo sopra.
Le prime coltivazioni del territorio, che poi sarà il centro abitato di Diamante, risalgono al tempo dei Romani. Durante uno dei loro numerosi viaggi per motivi commerciali, portarono dalla Persia una pianta, originaria delle Indie orientali, i cui frutti erano da loro conosciuti con il nome di “pomo di Medea”; agrume e precisamente il cedro (Citrus Medica) diventato celebre in tutto il mondo come il “cedro liscio di Diamante”, dal quale i diamantesi ne traggono ancora profitto specialmente se è candito. Verso gli inizi del 1500 invece, dalla zona più interna della valle del Corvino, che costeggiava il lato sinistro del torrente, confinante con Buonvicino, chiamata “a Tunnàra”, fino alla “Chiàna”, altra zona pianeggiante oltre il torrente, veniva coltivata la canna da zucchero nonché ortaggi e frutta. Nella prima metà del 1600, il principe Carafa (ereditò l’Impresa degli zuccheri dal suo predecessore Don Niccolò Bernardino Sanseverino, principe di Bisignano) diede un nuovo incentivo alle coltivazioni.
Passato il periodo delle incursioni Saracene, la gente che si era rifugiata nei paesi interni man mano cominciò a spostarsi verso la costa dove avevano lasciato le varie attività agricole e dove il mare poteva essere non solo occasione di pesca. Così come tutta la costa tirrenica superiore, anche nella “Terra del Diamante” si riprese la coltivazione della canna da zucchero e l’attività della pesca.
Diamante non aveva un luogo di culto adatto dove poter svolgere le funzioni sacre. Quindi, sconsacrata la chiesa di San Nicola, sorse il problema di costruire una nuova chiesa più ampia della prima per il continuo aumento degli abitanti. Fu allora che il principe Tiberio Carafa, religioso e molto devoto della Madonna, decise di far costruire, a proprie spese, una nuova chiesa e dedicarla all’Immacolata Concezione. Per la costruzione della nuova chiesa, fu scelto l’ampio spazio sul costone del Timpone. Sul punto più alt, dove si decise di erigere l’altare maggiore, di fronte alla cappella delle Anime del Purgatorio, esisteva una grossa croce di legno fatta da artigiani locali per protezione contro i Saraceni e, sotto di essa, uno sciancato, soprannominato “Attìzza mbìrnu”, di notte accendeva un falò che serviva come segnale ai pescatori.
Diamante non aveva altra attrattiva se non quella del suo lungomare e delle sue tre spiagge che offrivano un’incantevole scogliera ed un mare terso al turista estivo o occasionale. Quindi, per incrementare l’afflusso dei turisti, si doveva escogitare una nuova attrazione originale. L’idea venne al pittore Nani Razzetti, milanese ma diamantese di adozione, e fu quella di rivitalizzare il centro storico con dei “Murales”. Dopo aver approvata la delibera, prese il via la colossale opera denominata “Operazione Murales” con l’arrivo, da molte città italiane ed estere, di ottantatre pittori che, nel mese di giugno 1981, iniziarono a dipingere i muri del centro storico.
La gastronomia ha delle attinenze con le feste paesane, con il Natale e con la Pasqua. I principali piatti sono i “fusilli” fatti in casa, come gli gnocchi o i ravioli ripieni. La sera della vigilia di Santa Lucia, in ogni famiglia si fanno le famose “grispèlle”: un impasto di farina che ricopre un filetto di baccalà, di acciughe salate o provola. Anche i tradizionali dolci natalizi vengono fritti, i più noti sono i “chìnuli” dalla tipica forma circolare, ripieni di crema di castagna e cioccolato, poi ricoperti con miele d’api, cannella e zucchero. Gli altri tre dolci tipici sono i “cannarìculi” (gnocchi), i “scherzi” (sfoglie di pasta che vengono tagliate in modo da assumere varie forme: stelle, lune, pesci …) ed i “cicinìlli” (i ritagli di pasta fatti fritti ed “ammielati). Verso novembre a Diamante si confezionano “i panicìlli” e le “crucètte” (fichi secchi, aperti e sovrapposti a forma di croci e ripieni con pezzetti di noci e cedro). Un’altra specialità diamantese è una confezione di fichi secchi infilati in stecche di canna chiamati “i spinapìsci”, in quanto ricordano la lisca del pesce, oppure a forma rotonda “i tornanìlli”, realizzati con rami di mortella. Sempre nel periodo autunnale si prepara ancora in casa il liquore di cedro o la marmellata di cedro.
Prima di carnevale, si preparano salsicce, soppressate, capicolli e prosciutti locali. Mentre nelle feste di Pasqua si preparano le “pizzàtole ed i “tòrtani” col tipico ramoscello d’ulivo benedetto; queste specialità di dolci hanno la forma di una treccia, con un uovo sodo (pizzatola) e con più uova (fino a sei) il tortano o ciambella. Dal mese di gennaio fino ad aprile, si preparano le “raganèlle di rosamarina” fatte tipo frittata con mollica di pane, aglio e pepe pesato, amalgamato con la “neonata” (pesce azzurro appena nato). Con la “rosa marina” si possono fare anche le “pitticèlle” o le “vecchiarèlle”, deliziose frittelle di farina diluita.
Nelle cantine e nei ripostigli delle abitazioni si trovano “i cugnìtti d’alici salate” . altri prodotti tipici sono le “mulingiàne salate” e nei “baganìlli” si trovano le “avulìve ammaccàte”, cioè melenzane, prima bollite poi pressate ed olive pestate con aglio, sale, finocchio e peperoni. Infine, come in tutta la Calabria, è diffuso l’uso del “cancarìllu”, cioè del peperoncino, celebrato a Diamante con il Festival patrocinato dall’Accademia Italiana omonima. D’estate, ritorna ancora il cedro come protagonista con granite e bibite ed il famoso “Tartufo di cedro”.