di Monica Vendrame
"Se leggete queste parole, sono già morto"
La frase tremava sullo schermo del computer, scritta con la calma spaventosa di chi sa che sta per diventare un nome su una lapide. Hossam Shabat, ventitré anni, capelli sempre spettinati e una telecamera che non abbandonava mai, aveva preparato tutto. Anche la sua morte.
Tutto era iniziato come un ragazzo qualunque, con le cuffie sempre nelle orecchie e la passione per i videogiochi. Poi Gaza aveva smesso di essere un posto dove si poteva essere giovani. Così aveva preso quel telefono e aveva iniziato a filmare. Prima per caso, poi per disperazione, infine con la precisione chirurgica di chi sa che ogni frame potrebbe essere l'ultima prova di un crimine. "Non sono un eroe", ripeteva a chi lo elogiava, "sono solo uno che ha capito che in tempi di menzogna, filmare la verità diventa un atto rivoluzionario".
Lo chiamavano "il giornalista senza paura", ma la paura ce l'aveva eccome. La sentivi in quel leggero tremolio della mano quando un boato troppo vicino scuoteva l'obiettivo. Nella voce che a volte si incrinava mentre descriveva bambini tirati fuori dalle macerie come bambole rotte. Ma non si è mai fermato. Neanche quando gli hanno demolito la casa dopo quella telefonata minatoria in cui un ufficiale israeliano gli intimava di smettere di documentare. Neanche quando quel proiettile gli ha sfiorato il collo lasciandogli un segno rosso come un marchio, l'ultimo avvertimento prima del silenzio definitivo.
Ieri pomeriggio, mentre correva verso l'ennesimo bombardamento, il drone lo ha beccato in pieno. Nella tasca della giacca, il telefono ha registrato l'ultimo secondo di vita: un urlo soffocato, il rumore del vetro che esplode, poi il silenzio. Nelle sue memorie digitali, trovi l'archivio di un genocidio: madri che stringono i figli per l'ultima volta, medici che operano a lume di candela, vecchi che cercano medicine in farmacie distrutte. E quel video finale, rimasto incompiuto: il corpo straziato del collega Mohammed Mansour, ucciso poche ore prima, che Hossam aveva voluto documentare fino all'ultimo, come monito al mondo.
E quel suo ultimo, profetico tweet: "A Gaza, il ferito viene ucciso", pubblicato poche ore prima di diventare lui stesso la notizia che aveva sempre cercato di raccontare.
"Guardate", sembra dirci dalle sue ultime parole. "Guardate bene. E poi dite che non sapevate". Ora quel telefono è spento, ma i suoi 560.000 follower sanno che la vera posta in gioco non era la sua vita - era la nostra capacità di continuare a vedere attraverso i suoi occhi, anche quando tutto ci spinge a distogliere lo sguardo. Perché in fondo, Hossam non è morto per quello che mostrava, ma per quello che tutti noi avremmo potuto vedere.