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In molti centri del Sud Italia, dal giorno successivo al Carnevale e per tutto il periodo quaresimale, è ancora possibile imbattersi in delle rudimentali bamboline di stoffa, esposte alle finestre o sospese a un filo steso da una casa all’altra che una volta servivano a scandire il trascorrere del tempo che precede la Pasqua.
Con una ritualità che resiste ai cambiamenti della società, le bambole Quaresima sono riconducibili ad un unico oggetto tradizionale ma presentano peculiarità, caratteristiche e nomi diversi a seconda dei luoghi: in Abruzzo, Molise e Puglia il termine più comune è Quarantane; in Calabria è molto diffuso Corajisime o Quarajisime, in Campania vengono chiamate Quaravesime o Caraesime.

 

“Il giro delle botti, dei catoj e delle carretterie” è un percorso enogastronomico che riporta il visitatore indietro nel tempo snodandosi tra antiche viuzze, per l’appunto le “carretterie”, (strade, ai tempi, percorse dai famosi carrettini siciliani) o da “stritturi” (viuzze molto strette) del borgo di Monforte San Giorgio in provincia di Messina, che potranno essere esplorate assaporando una storia che parla di amore verso la terra e di tradizioni siciliane da preservare.


Una manifestazione, nata forse per puro caso, da un semplice gesto, un atto conviviale, dove alcuni amici in piazza, una sera per San Martino, decisero di fare il giro delle botti di ognuno per assaggiarne il vino accompagnandolo, perché no, con un po’ di pane, del salame, del formaggio o di quello che ognuno aveva in casa. Da qui l’idea di creare una manifestazione che potesse far provare la stessa emozione a più persone, le quali così hanno modo, stando assieme, di sorseggiare un po’ di vino appena spillato e gustare i sapori locali in compagnia ballando qualche tarantella al suono di canti e musiche tradizionali.


È ormai un immancabile appuntamento autunnale nel panorama delle sagre siciliane. Si tiene a novembre nel comune, appunto, di Monforte San Giorgio in provincia di Messina ed è organizzato dal “Gruppo Katabba” dello stesso centro peloritano che con le sue iniziative intende dare una giusta visibilità e rivalutazione al patrimonio materiale e immateriale della cittadina. Nel 1919 il “giro” è giunto alla sua decima edizione. Purtroppo causa pandemia COVID-19 l’anno scorso la festa non si è potuta organizzare.
Monforte San Giorgio è un antico borgo di impostazione arabo-medievale, con le sue stradine strette, con i suoi angusti passaggi cui, in alcuni, si transita solamente uno per volta, le numerose scale con alzate a volte sostenute e i suoi spazi intermedi con piccoli cortili interni.


L’evento si svolge, oltre che con l’organizzazione del “Gruppo Katabba” e dell’Amministrazione Comunale, anche con l’impegno di tutti gli abitanti del luogo che riescono ad animare la manifestazione e a renderla un qualcosa di emozionante e di allegorico. Una manifestazione capace di attirare migliaia e migliaia di visitatori da tutto l’hinterland e oltre, riunendo cultura contadina, tradizione che affonda le sue radici in tempi lontani, prodotti d’eccellenza locali e voglia di stare insieme in spensieratezza. Turisti siciliani ma non solo, che vanno alla scoperta del borgo della campagna messinese.


È sicuramente un weekend dai profumi antichi, attraverso le tipiche “stritturi” (strettoie) che caratterizzano il borgo, “i vaneddi” (piccole stradelle), “i ghiani” (piccoli cortili interni) e “i catoj” (ristrette abitazioni scavate nella pietra), e i vari parmenti (palmenti), molti ormai in disuso. Un itinerario percorribile esclusivamente a piedi, tutti insieme festosamente alla scoperta della piccola cittadina. Una manifestazione dove lanciarsi in balli tradizionali o chiacchierare con gli abitanti del luogo, simpatici e disponibili a rivelare aneddoti personali che riguardano non solo i piatti che offrono, ma anche la storia di quei luoghi antichi o le tradizioni dei mestieri tramandati dai loro padri, come “’u pananaru”, l’arte rurale dell’intreccio dei vimini. Arte ormai in estinzione! L’architettura di quelle case antiche riserva continue sorprese. È possibile, infatti, vedere ancora strutture ormai in disuso, ma ancora resistenti e perfettamente funzionali: archi a sesto ribassato, a botte o a crociera. Come pure è possibile, nelle varie cantine disseminate lungo il percorso, vedere delle botti dalle dimensioni eccezionali costruite all’interno di esse.
È un evento senza dubbio che catapulta il partecipante indietro nel tempo, il quale viene allietato nel suo percorso dalle tradizionali musiche di suonatori di ciaramedde (zampogne), friscaretti (zufoli), fisarmoniche e tamburello e dalle tipiche cantate siciliane.


All’ingresso della manifestazione, viene consegnata, al costo di 10 euro, una sacca con all’interno un calice che il visitatore potrà utilizzare per sorseggiare i vini che troverà lungo il percorso. Trenta postazioni di degustazione, dove poter trascorrere dei momenti di assoluta prelibatezza, accompagnati dalle esibizioni di cantastorie, stornellanti, gruppi folcloristici e “friscalettari”, all’insegna della più sentita tradizione. I visitatori hanno quindi la possibilità di assaggiare a ogni tappa pietanze semplici, ma tipiche del luogo legate ai prodotti autunnali: le schiacciate, i pomodori secchi sott’olio, la classica pasta e fagioli, o anche pietanze a base di “cucuzza longa” (zucchina lunga) che i monfortesi cucinano alla “ghiotta” e dolci. Dolci di tutti i tipi: crostate, torte. Tutti piatti della cultura umile delle tavole dei contadini. Naturalmente non possono mancare: la mostarda e gli spinci (sfincie o zeppole) con l’uvetta passa. Il tutto annaffiato da buon vino appena spillato dalle botti proprio davanti all’avventore.
Immersi in questo connubio di sapori, musiche, colori e suoni, è inevitabile portare a casa un’esperienza unica.

 

 

Nell’entroterra siracusano, in Sicilia, inserita nello splendido scenario dei monti Iblei, nella Val di Noto, c’è la suggestiva cittadina di Palazzolo Acreide, di origini greche (dal greco “akrà”, sommità) e ricca di testimonianze di epoche diverse in cui decisamente ancora oggi si respira profumo di “barocco”. Inserita nel 2019 tra i borghi più belli d’Italia.
Santo protettore è San Sebastiano Martire, scelto dalla Chiesa come “depulsor pestis” (allontanatore di peste) e difensore della fede. Già dal 1414 anno in cui un miracoloso Simulacro del Santo approdò a Melilli (oggi libero consorzio comunale di Siracusa) il culto di S. Sebastiano si diffuse nell’area Iblea e in tutta la Sicilia. Subito a Palazzolo gli venne dedicata la Cappella presso l’antica Chiesa dell’Annunziata. La festa, che cade per la ricorrenza del 20 gennaio, si protrae fino al 27. Quindi la si replica il 10 agosto, andando a sostituire quella della Vergine Odigitria che era stata scelta come propiziatrice della buona stagione. Due celebrazioni vissute con la stessa grande venerazione, ma con un sfondo di pubblico, di spettacolarità e di folklore eccezionali con una grande risonanza che va sicuramente anche fuori dai confini locali. Otto giorni di festeggiamenti quindi a gennaio e addirittura dieci ad agosto (dal 7 al 17) che si susseguono con momenti rituali e tradizionali e momenti ricchi di iniziative più “moderne”. Tale celebrazione dal 2002 è inserita nella lista del R.E.I.L. (Registro delle Eredità Immateriali di Interesse Locale) dei “Patrimoni Mondiali dell’Umanità UNESCO”.
Un vortice di immagini, di suoni e di colori di epoche passate, accompagna un programma di tutto rispetto!
I momenti più toccanti e spettacolari sono tanti.
Già dai primi di agosto incominciano a fervere i preparativi per una festa dalle dimensioni davvero notevoli.
A partire dal 7 agosto si possono iniziare a visitare le varie mostre fotografiche e di artigianato locale allestite per la festa e si può assistere ad una serie di manifestazioni ad essa connesse come (l’8 agosto) la benedizione delle automobili e quindi “’a sirata â villa” – serale spettacolo musicale alla Villa comunale.
Il 9 è il giorno del giro di gala e della “svelata” (la rimozione del velo che copre) del secentesco Simulacro di San Sebastiano Martire, salutato dal popolo palazzolese, e anche non, acclamante. A seguire la celebrazione dei Vespri, la benedizione e l’immancabile “bacio” della Sacra Reliquia del Protettore della città Akrense.
Giorno 10 alle ore 8,15 si inizia con lo sparo di 21 colpi di cannone e la partenza del “carro del pane” accompagnato dalle bande musicali per la tradizionale raccolta delle cuddure votive (ciambelle di pane offerte al Santo ) ore 10,30, la benedizione di queste e dell’alloro (a ricordo del bosco di alloro sacro ad Adone, dove San Sebastiano, legato nudo a un albero, fu bersaglio delle frecce dei feroci arcieri della Mauritania).

 

 

Alle ore 13,00, momento clou di tutti i festeggiamenti, la suggestiva, maestosa e spettacolare “sciuta” (l’uscita) della Reliquia e del Simulacro del Santo. La piazza antistante la Cattedrale è gremita di devoti esultanti o di semplici turisti, provenienti da ogni parte della Sicilia e del mondo, giunti per ammirare questa meraviglia.

 

 

Annunciati dal suono a festa delle campane, i due artistici fercoli, sotto una pioggia multicolore di migliaia di “‘nzareddi” (piccole strisce di carta multicolori lunghe 2 m) vengono accompagnati da uno scroscio interminabile di fuochi d’artificio e dalle grida dei devoti che sommergono il simulacro, cui fa eco il suono delle bande e l’offerta di bambini nudi.

 

 

I due fercoli sorretti a “spadda nura” (sulla nuda spalla) dai portatori, vengono seguiti lungo le vie cittadine dalle devote del “viagghiu scausu” (viaggio a piedi scalzi) e dalla immensa folla dei fedeli. A seguire l’emozionante “catena umana” lungo la salita di via Fiumegrande. Alle ore 20,30 la processione serale e lo spettacolo musicale.
L’ultimo giorno, il 17 agosto, alle ore 20,30 c’è una nuova processione del Reliquario e del Simulacro di S. Sebastiano sulla sua “varicedda” (fercolo).
Per ultimo, una volta ritornato nella sua Cappella, la “velata” del Santo che resterà coperto fino al gennaio successivo.
Chiude la festa un fantasmagorico spettacolo piromusicale dalle dimensioni impensabili.

 

 

"La tradizione è una guida e non un carceriere".
(W. Somerset Maugham)

"Essere superstiziosi è da ignoranti ma non esserlo porta male"
E. De Filippo

Credo si debba scindere il significato letterale di tradizione con superstizione o ignoranza.
Nella tradizione risiede la storia, i valori ed i costumi di un popolo.
La superstizione è un rito ridondante che segue presupposti fittizi e soprannaturali, atteggiamenti irrazionali che hanno poco a che vedere con la cultura storica e tangibile di una collettività .
L’ignoranza credo sia circoscritta al grado di apprendimento o di capienza informativa e di conoscenza che un essere può acquisire. Ma questo è relativo all’individuo e non al suo costume.
Ho riscontrato, per esperienza personale, una chiusura intellettuale, stagnante, circoscritta non al costume ma al luogo. Un punto di partenza mai iniziato.
E a volte la parola tradizione veniva usata, come concetto educativo obsoleto. Un’educazione primordiale, da rispettare a scapito del buon senso e della libertà intellettuale.
Ergo non guide ma carcerieri.
Per paradosso ho riscontrato più evoluzione conoscitiva e pragmatica nelle persone più mature di età. Quelle persone che hanno tatuato nella loro pelle e scritto nella loro vita la storia.
Le incontro spesso tra i vicoli pregni di ciclamini o di mantiglie nei loro balconi.
Sono saggi, sono dei bambini saturi di esperienza, sono i nostri nonni.
Rappresentano l’ identità di un paese in provincia di Catanzaro. Costituiscono un bagaglio di esperienze, di valori in cui essi credono.
Sono dei bellissimi bauli da aprire e non da soffitte o sottotetti.
Andiamo ad aprirne uno..
Una lampada ad olio, un centrino, un vestito bianco in pizzo e, una strana bambola.
Sembra più che una bambola, un fantoccio vestito di nero, un calzino riempito di paglia e la gamba di un vecchio pantalone per l’abito.
Segue foto

 

 


Un pupazzo di stoffa: ‘a monacheda (la monachella).
Il Mercoledì delle Ceneri segna l’inizio della quaresima, tempo di penitenza e di conversione.
In Calabria gli avi appendevano ai balconi una rudimentale bambolina di stoffa vestita di nero ("monacheda"), raffigurante la Quaresima ("Corajsima"), moglie di Carnevale, rimasta vedova la notte di martedì grasso.
Entriamo nello specifico:
Corajsima era la moglie (in alcune versioni la sorella) di Re Carnevale il quale, grasso com'era, moriva il terzo giorno per aver mangiato troppo durante i festeggiamenti, lasciando sola e nella povertà la magra moglie, la quale veniva appesa ai balconi per tutto il periodo di Quaresima, per aspettare la Pasqua.
Carnevale deriva appunto dal latino carnem levare, “privarsi della carne”,
"levare la carne", Corajisima, che significa invece Quaresima, era un fantoccio che veniva appeso ai balconi per ricordare il digiuno dalla carne da attuare il mercoledì delle ceneri fino a Pasqua. A quell’epoca non esistevano i calendari, le 7 piume conficcate in una patata (o un'arancia) ai piedi della bambola servivano a tenere il conto delle 7 settimane della Quaresima , se ne sfilava una ogni domenica (alcuni la sfilavano il sabato) fino al giorno di Pasqua, giorno in cui finiva il digiuno e i cosiddetti fioretti. Nella mano reggeva fuso e conocchia, attrezzi usati negli antichi telai, per simboleggiare il "tessere" dei 40 giorni.
Segue Foto

 

 


Una remota tradizione, un fantoccio nato negli anni di totale povertà, veniva creato con materiali di riciclo, si usava un calzino bianco per creare il capo; i rimanenti ritagli di stoffa, con cui le donne cucivano i loro capi, li utilizzavano per rivestire la bambola.

 

 

 

 


Incuteva timore la corajisima?
In effetti devo ammettere che un po’ di batticuore nel vedere il risultato finale mi è sopraggiunto ma ogni tradizione nasconde in sé un proprio dogma.

 

 

 

 

LA STORIA
Siamo tra gli anni 250-251 e Catania era sotto la dominazione romana che perseguitava barbaramente chiunque professasse il cristianesimo. Il proconsole Tiberio Claudio Quinziano giunto in città con l’intento di ordinare a tutti i fedeli di abiurare pubblicamente il loro Credo, s’invaghì di Agata, una bella giovinetta appartenente a una nobile famiglia catanese di religione cristiana che riuscì a fuggire però a Palermo. Quinziano la fece cercare e scovatola, la fece riportare a Catania.
È più probabile che in realtà le mire del proconsole puntassero più alla confisca dei beni appartenenti alla facoltosa famiglia di Agata.
Comunque, saputa della sua consacrazione, le ordinò di ripudiare la sua fede e adorare gli dei pagani.
La donna rifiutò e fu affidata per un mese alla custodia rieducativa della cortigiana Afrodisia, per sottometterla alle sue voglie con violenze psicologiche, allettamenti e minacce.
Fu tutto inutile! Trascorso tale periodo la giovane fu tradotta al cospetto di Quinziano.
La tradizione ha tramandato i dialoghi tra il proconsole e la santa: “Le sofferenze che mi infliggerai saranno di breve durata, e non attendo altro che sperimentarle perché così come il grano non può essere conservato in granaio se prima il suo guscio non viene aspramente stritolato e ridotto in frantumi, allo stesso modo la mia anima non potrà entrare in paradiso se prima non farai minutamente dilaniare il mio corpo dai tuoi carnefici”. Da cui si evince la capacità della giovane di tenere testa a chi la stava giudicando con argomentazioni erudite.
Quinziano umiliato, dopo un processo burla, la condannò al carcere e alle violenze con l’intento di spezzare la resistenza della giovinetta. Fustigata, legata sull’“eculeo”, antico strumento di tortura a forma di cavalletto, quindi allungata con funi con conseguenti slogatura delle caviglie e dei polsi, e sottoposta finanche al feroce strappo delle mammelle mediante tenaglie. Mammelle che le ricrebbero prodigiosamente durante la notte grazie all’intervento di San Pietro.
Non contento di ciò la condannò all’ultima delle torture: un letto di tizzoni ardenti. Anche qui, si racconta, ci fu l’intervento divino: il corpo di Agata veniva martoriato dal fuoco, mentre il velo rosso, simbolo della sua consacrazione a Dio, non bruciava.
Agata morì in carcere il 5 febbraio 251 dando la vita nella fedeltà al Vangelo e mostrando fino all’ultimo suo respiro la vittoria di una fede incrollabile.
Il suo corpo venne imbalsamato e avvolto nel suo velo rosso.
Il 5 febbraio 252 i catanesi prelevano dalla tomba questo suo velo rosso, simbolo della purezza consacrata della donna, e lo porsero davanti alla lava che minacciava la città di Catania. La colata ebbe fine! Questo successe tantissime altre volte! Anche nel 1576, quando a Catania imperava la peste le reliquie furono portate lungo le vie della città e, giunte agli ospedali dove erano ricoverati gli appestati, questi miracolosamente guarirono e finirono i contagi. Per questi prodigi miracolosi, Agata fu proclamata santa.
Le sue reliquie furono anche trafugate e portate a Costantinopoli nel 1040.
Ma nel 1126 furono riconsegnate al vescovo di Catania Maurizio nel castello di Aci, e il 17 agosto 1126, rientrarono definitivamente nella Cattedrale di Sant’Agata, dove vengono tutt’oggi conservate in parte all’interno del prezioso mezzobusto in argento (una porzione del cranio, del torace e alcuni organi interni) e in parte dentro lo scrigno, anch’esso d’argento (braccia e mani, femori, gambe e piedi, la mammella e il velo).

LA FESTA

La famosa festa di Sant’Agata, patrona della città di Catania, ritenuta la terza festa religiosa più importante al mondo dopo la Settimana Santa di Siviglia e la Festa del Corpus Domini di Guzco in Perù, e inserita nella lista mondiale dei “Beni Etno-Antropologici Patrimonio dell’Umanità”, viene celebrata ogni anno dal 3 al 5 febbraio e richiama nella città siciliana quasi un milione di persone tra devoti e curiosi. Festa, misto di devozione e di folklore, in cui per quei giorni l’intera cittadinanza mette da parte ogni cosa per concentrarsi su di essa.
Il primo giorno, il 3 febbraio, è riservato all’“offerta delle candele”, suggestiva processione per la raccolta della cera, che va dalla “Chiesa della Calcarella”, dove i fedeli venerano la fornace dalla quale la martire uscì illesa, per arrivare fino alla Cattedrale. La tradizionale sfilata delle “candelore”, grossi ceri rappresentativi delle corporazioni o dei mestieri. Grosse e imponenti costruzioni scolpite, dorate in superficie e rivestite con decorazioni artigianali, puttini in legno dorato, santi e scene del martirio, fiori e bandiere. Le candelore, piccole “vare”, portate rigorosamente “a spalla” dai fedeli, un tempo, quando mancava l’illuminazione elettrica, avevano la funzione di illuminare il passo.


Le candelore sfilano sempre nello stesso ordine.
Ad aprire la processione è il piccolo cero di “Monsignor Ventimiglia”, chiamato affettuosamente dai catanesi: “a nicaredda” (la piccina), per via dell’esiguo peso (solo 200Kg.). Segue il grande “Cereo Rinoti” realizzato nei primi dell’Ottocento, che rappresenta gli abitanti del quartiere di San Giuseppe La Rena.
A questo fa seguito quello in stile gotico-veneziano dei giardinieri e dei fiorai: “la regina”.
Viene quindi quello dei pescivendoli, in stile tardo-barocco con fregi di Santi e piccoli pesci e per via del suo passo veloce, fa guadagnare alla candelora il soprannome di “bersagliera”.
Il cero dei fruttivendoli dal passo elegante soprannominato la “signorina”.
Quindi “i chianchieri” (i macellai), torre a quattro ordini quello dei macellai.
Dopo troviamo il Cereo Pizzicagnoli, in stile liberty, meglio chiamato “‘A fummaggiara” (la bottegaia).
Morigerata e senza scenografie è la candelora settecentesca dei pastai, “a piciridda” (la piccolina)
Quella dei panettieri, la più pesante di tutte, ornata con grandi angeli, chiamata la “mamma”.
Chiude la processione il Cereo Circolo Cittadino Sant’Agata, “‘a cannalora di Sant’Aita”, introdotta dal cardinale Dusmet.
In passato le candelore sono arrivate a essere anche state anche in numero di 28: esistevano anche quelle dei calzolai, dei confettieri, dei muratori.
La prima giornata si conclude in serata con un spettacolare gioco pirotecnici in piazza Duomo.
Il 4 febbraio è il giorno più emozionante, perché segna il primo incontro della città con la santa Patrona. Al grido di “Tutti devoti” i fedeli ammassano le vie cittadine al seguito del “fercolo” che contiene le reliquie della Santa.
Al mattino la Santa esce dalla sua “cameretta” dove è custodita tutto l’anno e di fatto dopo la cerimonia eucaristica, viene consegnata ai catanesi.


È come respirare una particolare atmosfera, come rivedere un familiare che manca da un anno. È una fortissima emozione accompagnata da grida di saluto.
Già dalle prime ore dell’alba le strade della città si popolano di devoti che indossano il tradizionale “sacco” (un camice votivo di tela bianca lungo fino alla caviglia e stretto in vita da un cordoncino), un berretto di velluto nero, guanti bianchi e sventolano un fazzoletto anch’ esso bianco stirato a fitte pieghe. Questa divisa rappresenta l’abbigliamento notturno che i catanesi indossavano quando, il 17 agosto 1126, corsero incontro alle reliquie che i due soldati della guardia imperiale bizantina, Gisliberto e Goselmo, riportarono da Costantinopoli.
Tale data di ogni anno viene celebrata la festa di mezz’agosto che ricorda solennemente il ritorno delle Sacre Reliquie in città.
Tre differenti chiavi, ognuna custodita da una persona diversa (tesoriere, cerimoniere e priore del capitolo) sono necessarie per aprire il cancello di ferro messo a protezione delle reliquie conservate nella Cattedrale. Dopo che la terza chiave leva l’ultima mandata al cancello della cameretta in cui è custodito il Busto, e il sacello viene aperto, il viso gioioso e sereno di Sant’Agata appare agli occhi dei fedeli impazienti di rivederla. Scintillante di oro e di gemme preziose, il busto, foderato di velluto rosso, viene quindi issato sul fercolo d’argento rinascimentale assieme al prezioso scrigno. Una messa solenne celebrata dall’arcivescovo precede l’inizio della processione che quindi ha inizio al grido di “Tutti devoti”.
Il “giro” della Santa per le vie cittadine dura l’intera giornata. Il fercolo attraversa i luoghi del martirio ripercorrendo gli avvenimenti della “santuzza”, che si intrecciano con la storia della città. Un percorso fatto tutto velocemente come voler evitare alla Santa il ricordo della sua triste fine. Una sosta viene fatta alla “marina” in ricordo del momento di quando, impotenti e addolorati, i catanesi videro partire le reliquie della santa per Costantinopoli. Un’altra viene fatta alla colonna della peste, che ricorda il miracolo compiuto dalla Santa nel 1576, quando la città fu risparmiata dall’epidemia. I fedeli in più di quattromila trainano la pesante macchina. Tutti rigorosamente indossando il sacco votivo trascinano a ritmo cadenzato e senza sosta, tra la folla, il pesante fercolo gridando “cittadini, viva Sant’Agata”, un’acclamazione che vuole anche significare che la Santa tra loro è viva. Il “giro” si conclude a notte fonda quando il fercolo ritorna in Cattedrale.


Il 5 e ultimo giorno della spettacolare festa sul fercolo, i garofani rossi del giorno precedente (simbolo del martirio della Santa) vengono sostituiti da quelli bianchi (simboleggianti la purezza). Nella tarda mattinata, nella Cattedrale in maniera solenne dall’Arcivescovo viene celebrato il “pontificale”. Mentre al tramonto inizia la seconda parte della processione che si snoda per le vie del centro di Catania, attraversando anche il “Borgo”. Il momento più atteso è il passaggio per la via di San Giuliano, che per la pendenza della strada tutta in salita, è il punto più pericoloso della processione. Esso rappresenta una prova di coraggio per i fedeli un ostacolo da superare. E a seconda di come lo si supera sarà un buono o un cattivo auspicio per l’intero anno.
A notte fonda superlativi fuochi d’artificio segneranno la chiusura dei festeggiamenti.
Quando i catanesi riconsegnano alla sua “cameretta” in Cattedrale il reliquiario e lo scrigno, la stanchezza la fa da padrona, la voce è quasi inesistente, ma c’è viva la soddisfazione di aver portato in trionfo la Santa per le vie della sua Catania che ripaga di quelle fatiche e riempie gli animi di gioia. Bisognerà attendere un altro anno per poter vedere nuovamente sorridere il viso della Santa, martire per la salvezza della Fede in Cristo e anche della stessa Catania.

LA FESTA OGGI 3 FEBBRAIO 2021

Purtroppo, causa emergenza Covid, alla luce delle attuali disposizioni delle competenti autorità, le celebrazioni in onore della patrona per quest’anno saranno limitate solamente ai momenti religiosi che peraltro si svolgeranno in sicurezza e in modo ristretto.
L’Arcivescovo, Monsignor Salvatore Gristina, rivolgendosi alle associazioni agatine, ha recitato: “Sappiamo che ci troviamo in un contesto speciale. Dal punto di vista interiore nulla potrà cambiare, l’amore e la devozione resteranno immutati, anzi questa privazione degli aspetti esterni sarà un’occasione di crescita nella devozione e dovrà rafforzare il nostro amore per la Santa Patrona”.
La festa per quest’anno sarà nei cuori dei fedeli che continueranno ugualmente a vestire il tradizionale bianco camice votivo, il “sacco”, e pregheranno a casa perché la Santa faccia terminare al più presto questa pandemia.

 

 

Ingredienti per 4 persone

4 fettine di vitello
8 carciofi
3 cucchiai di olio extra vergine di oliva
1 spicchio di aglio
Sale q.b.
Prezzemolo q.b.
1 limone 

Preparazione

Togliete le foglie più dure dei carciofi, tagliate le punte, divideteli a metà, eliminate la barbetta centrale e tagliateli a spicchi. Man mano che li pulite immergeteli in una ciotola di acqua con il succo di un limone. Fate cuocere i carciofi nell’acqua bollente salata per circa 10 minuti. Mettete l’olio in una padella e fate rosolare lo spicchio di aglio, aggiungete le fettine di carne, mettete il sale, coprite con un coperchio e lasciatele cuocere. A cottura ultimata togliete le fettine di carne dalla padella, adagiatele in un piatto e tenetele in caldo.
Sgocciolate i carciofi, metteteli nel fondo di cottura della carne e lasciateli insaporire per circa 5 minuti.
Disponete le fettine di vitello su un piatto da portata, adagiate sopra i carciofi, cospargete con il prezzemolo tritato e servite.

 

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