Il poeta cosentino Pirro Schettini, massimo esponente della rinascita classico – petrarchesca
Orazio, nell’Ars poetica, dice: “La saggezza è il principio e la fonte dello scrivere bene”. Saggezza intesa come sapere, come conoscenza, come esperienza. Il verbo conoscere in ebraico ha anche il significato di penetrare nel senso profondo che tale realtà porta nella sua essenza più profonda. Dunque, per scrivere, per scrivere bene, per scrivere poeticamente, non sono sufficienti l’inclinazione e l’ispirazione, bisogna possedere anche altri “strumenti”, in primis il sapere. E ciò gli fu chiaro, a un certo punto della sua vita, al nostro illustre personaggio.
Nato ad Aprigliano (CS) il 18 dicembre 1630 da una famiglia distinta e benestante, fu avviato agli studi dapprima a Cosenza e successivamente a Napoli per seguire i corsi di Giurisprudenza. Ma più che dagli studi florenzi fu attratto dalle Muse e si mise a coltivare la poesia sulle orme del Marini che con il suo stile facile, stravagante e a volte veramente poetico, dava l’idea che fosse facile fare poesia e invogliava i poeti del tempo non solo ad imitarlo ma a superarlo nel comporre stravaganze che di poetico avevano ben poco o nulla. Tutti i verseggiatori volevano apparire originali e innovativi e disdegnavano lo studio dei classici per non apparire imitatori. Così il nostro Pirro, che attratto dalla facile scuola e abbagliato dagli applausi che venivano tributati ai seguaci del Marini, scrisse molte composizioni con uno stile tronfio e ampolloso, ma del tutto privo o quasi, di sostanza poetica. Ma, come accade solo ai grandi, anche il nostro a un certo punto, si accorse di non essere sulla giusta strada e comprese che i facili applausi non portano all’immortalità delle opere né a quella dei loro autori. E allora si mise a studiare i classici e così ebbe modo di vedere in Dante il vigore dell'espressione e la sublimità dei pensieri che si accoppiano alla naturalezza delle immagini e dei concetti; in Petrarca la soavità inimitabile del verso e la scioltezza delle frasi, che costituiscono il suo maggior pregio; in Ariosto la fluidità della verseggiatura, la ricchezza delle immagini, la fantasia vivace ma non sregolata. E comprese che se non si trae spunto dalla realtà e dalle chiare forme della natura non si può sperare di essere collocati nel Tempio della Gloria.
Alla luce di ciò abbandonò il marinismo, anzi divenne antimarinista, e intraprese quel nuovo percorso che lo porterà a diventare il massimo esponente della rinascita classico – petrarchesca e, al suo ritorno a Cosenza, ad assumere un ruolo di primo piano nell’ambito dell'Accademia Cosentina, che con la sua presenza, riacquistò il prestigio di cui aveva goduto ai tempi di Telesio.
Raggiunto il “Tempio della Gloria”, fu colto da una crisi esistenziale che lo portò a farsi sacerdote e a vivere gli ultimi anni della sua vita in qualità di canonico della Cattedrale di Cosenza. Prima di morire, nel 1678, diede alle fiamme molte delle sue rime, compreso un poema latino intitolato Cratide. Taluni suppongono che tale gesto fu dettato dal desiderio di non rendere pubbliche le poesie d’amore che avrebbero potuto nuocere alla sua immagine di uomo serio e dai severi costumi, mentre altri pensano che, come Virgilio dell'Eneide, non fosse contento delle sue opere perché non abbastanza affinate.
Comunque al di là della vera motivazione, resta il fatto che una parte della sua produzione fu ridotta in cenere. Per fortuna ci sono le poesie superstite (raccolte in un volumetto stampato a Napoli nel 1693) a testimoniare il suo talento di poeta robusto ed elegante animato da sentimenti sinceri e dal desiderio di superare il marinismo.
In omaggio alla sua memoria, riporto di seguito un suo filosofico ed eccellente sonetto sulla Morte, corredato da un’appendice provocatoria:
“O Morte o tu de' mìseri mortali
Contro i flutti del mondo, e contro i venti
Securo porto, o delle stanche menti
Dolce conforto, eterno obblìo di mali:
Quando fia che si sciolga, o che si allenti
Il nugol denso de' miei sensi frali,
Vieni Morte pietosa a scioglier l’ali,
Cieco vulgo da te fugga e paventi;
Folle ei non sa che il giogo indegno e greve
Rompi d’Amor tu sola, e della sorte
Fermi la ruota, e il variar sì lieve:
lo te vorrei per mio riposo, o Morte,
E chi si duol che nostra vita è breve
Duolsi, che l’ore del penar sian corte”.
Mi piacerebbe che i lettori confrontassero il sonetto del nostro con quello del Foscolo “Alla sera”, che riporto di seguito, ed esprimessero il loro parere sul perché quello del Foscolo è riprodotto in qualsivoglia antologia scolastica, mentre quello del nostro, peraltro composto prima, non compare in nessun testo scolastico. Vi pare che la differenza di stile e di contenuto sia cosi abissale da giustificare l’insopportabile e inaccettabile disparità di trattamento da parte degli editori e non solo?
Alla sera
Forse perché della fatal quïete
Tu sei l’immago, a me sí cara vieni,
O Sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme
Delle cure onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
Tratto da “Personaggi illustri calabresi” di Vito Sorrenti, Amazon, giugno 2020