Colors: Blue Color

 

All’inizio i suoi lavori sono pressappoco espressionistici, per la maggior parte ritratti della madre e delle sorelle, eseguiti a matita e a pastello.
Nato a Novara nel 1883, Casorati, dopo una fase di formazione che lo vede impegnato con rappresentazioni tradizionali di stampo verista, nei primi quindici anni del Novecento produce opere stilisticamente conformi al simbolismo secessionista di Klimt. Le sue tele sono popolate da soggetti allegorici e spirituali, dove prevalgono figure femminili, ampio ricorso a motivi decorativi bidimensionali. Tuttavia viene affascinato dalla pittura metafisica e nel 1907 espone alla Biennale di Venezia. Un luogo necessario e importantissimo dal punto di vista artistico italiano di quegli anni, in quanto ebbe il merito di riunire e dare largo spazio alle ricerche sperimentali di giovani artisti, in opposizione all'arte "accademica" che andava per la maggiore.

  Meriggio, 1923

 

Casorati entra a far parte della galleria degli artisti famosi, nei lavori successivi il suo stile si ispira sempre più a una evidenza ornamentale che richiama lo stile degli artisti della Secessione Viennese. Nonostante questo effettivo schieramento con le correnti che andavano per la maggiore, Casorati, nel corso della sua carriera, ebbe ampi spazi di autonomia "fuori dal coro", portando avanti un modo di esprimersi solitario che all’occorrenza disposto a variazioni di stile repentini, nonostante la "giocosità" dei soggetti e la luminosa esuberanza dei colori, esprimono al pubblico una sensazione di abbandono, di distacco e di impenetrabile solitudine.
Sempre negli anni Venti si unì ad un gruppo denominato "Novecento", guidato dall'instancabile verve coordinatrice della critica d'arte Margherita Sarfatti, un gruppo "approvato" dal Fascismo, qui convivono una gran quantità di stili, linguaggi dalla necessità di mantenere una visibilità nell'ambito del panorama culturale italiano di quei difficilissimi anni. Partecipa alla Grande Guerra e, al suo ritorno, si stabilisce a Torino, dove conosce l'antifascista Gobetti e il gruppo degli «Amici di Rivoluzione Liberale» al quale aderisce nel 1922. Per questa amicizia nel 1923 viene arrestato. Trascorre in carcere solo pochi giorni, e, anche se si asterrà da allora da ogni iniziativa politica, non nasconderà mai la sua ostilità per il regime fascista.

  Ritratto di Silvana Cenni


La prima mostra dei "novecentisti" si tiene a Milano nel 1926: vi prendono parte oltre cento artisti - in sostanza tutti i "grandi" italiani di quel tempo -, da Sironi a De Chirico, da Carrà al Nostro. Ed è proprio in questi stessi anni che Casorati dà vita ad alcune delle sue opere più mature, quali: "L’attesa", "Meriggio", "Il ritratto di Silvana Cenni" e "Il sogno del melograno". Veri e propri manifesti di un'arte intenta a riscoprire valori dimenticati dell'antichità classica come armonia delle forme, geometrica partizione degli spazi e nitide volumetrie.

 

Il sogno del melograno 

 

Mella prima di copertina, "L'attesa" (1818 - 19)

 

 

 

Una fresca mattina domenicale arricchita da una debole pioggia è il momento giusto per programmare una visita al centro storico di Palermo, “Patrimonio Mondiale dell’Unesco”. La clausura di questi mesi ci ha abituato al silenzio e le 7:00 del mattino sembrano il momento più opportuno per impadronirsi della città, fiutando i vicoli e le facciate dei palazzi della via Maqueda e ammirando la bellezza calma e sonnolenta di Palermo mentre le gambe ci guidano verso la splendida Cattedrale. Lì il grande Federico II riposa e da secoli custodisce la città ed i suoi abitanti.

Con un mezzo di trasporto agile ed economico, che risiede nelle nostre gambe, io e mio marito Franco partiamo presto da casa e dopo venti minuti stiamo già correndo in via Libertà, ripetendo un percorso a noi già noto per le tante gare a cui abbiamo partecipato. Rivedere queste vie dopo quasi tre mesi riempie di gioia e di speranza in una probabile rinascita, anche se l’incertezza di una pronta ripresa delle molte attività nate negli ultimi anni in Corso Vittorio Emanuele non può non far calare un’ombra sul futuro. Sono ancora recenti i ricordi delle vie ricolme di gente durante le “Vie dei Tesori” o lo “Sherbet Festival” che avevano trasformato Palermo in una vera capitale del turismo e una meta fondamentale nel Mediterraneo. Speriamo si possa continuare la strada che la città aveva intrapreso negli ultimi anni.

La pioggerellina si fa insistente e ci spinge a ripararci sotto una pensilina per non bagnarci. Casualmente ci ritroviamo davanti il Liceo Classico “Vittorio Emanuele II”, dove insegno dal 2007 e la vista della mia Cattedrale mi rapisce l’anima mentre recupero velocemente il ricordo dei turisti che affollavano il Bar Duomo nelle belle giornate primaverili e della musica a volte troppo alta per riuscire a fare lezione. La nostalgia è veramente forte: d’istinto stringo il cancello chiuso della scuola e penso che in fondo oggi è domenica e questo mi restituisce un vago sentore di normalità. Sembra quasi di toccare la Cattedrale da alcune aule del Liceo e i colleghi stranieri che ospitiamo durante gli Erasmus credono di vivere in un sogno, stupiti e rapiti di fronte a tanta bellezza.

Federico dorme qui, in una tomba monumentale trasformata in attrazione per turisti provenienti da tutto il mondo. Molti tedeschi vengono a trovare quello che considerano il loro “Imperatore” ed uno strano senso d’orgoglio si agita in noi perché Federico è “siciliano”, nonostante i suoi natali marchigiani e le origini germaniche. Da secoli il fondatore della “Scuola Siciliana” vede scorrere le vicende di una città ricca di storia, varia e diversificata nelle sue forme artistiche. Nel tempo il “Nostro Imperatore” è stato testimone di splendori, decadenza e improvvise rinascite mentre il suo occhio vigile riusciva a custodire e proteggere gli abitanti proprio come un sovrano medievale.

Finita la pioggia, giunge il momento di salutare Federico e intraprendere il percorso verso casa. Risalendo corso Vittorio Emanuele passeremo vicino il Palazzo dei Normanni, altro punto focale del percorso dichiarato “Patrimonio dell’Umanità”. Si tratta di un arrivederci nella comune consapevolezza di una necessaria e imminente ricostruzione delle nostre vite, in questi ultimi mesi sospesi ad un tempo senza tempo.   

 

 

È stata una voce autorevole della letteratura nel Novecento, i suoi versi non sono linee trasversali o sotto traccia, di un animo triste, immalinconito dalle amare vicissitudini del proprio vissuto, ma linee chiare di un talento nato, vissuto e alimentato dalle attitudini di una mente vocata verso questo tipo di Arte.
La breve vita di Antonia Pozzi, velata di malinconia e sottile inquietudine, resta avvolta nel mistero di un tormento che l’ha accerchiata, proiettata nei meandri del ‘male di vivere’ ineluttabile, fino a condurla nella desolazione di una scelta estrema, una fine tragica, che l’ha per sempre allontanata dai controversi scenari della sua travagliata esistenza.
Aveva soltanto 26 anni, Antonia, quando concluse che il mondo non aveva più niente da dirle e da offrirle. Alle spalle si lasciava una vita intensissima, esaltata da un animo estremamente sensibile, che sapeva captare con i suoi potenti ‘sensori’, ogni messaggio di luce e oscurità che provenisse dalle esperienze del quotidiano.
La poesia, tumulto intimo che le apriva vastissimi orizzonti, davanti allo sguardo attento e fisso oltre la superficie delle cose, era il suo rifugio e il luogo dell’anima prediletto, nel quale amava riversare ogni impulso diretto di una coscienza che aveva manifestato, fin da giovanissima, gli umori vivaci di un’intelligenza non comune.
Proveniva da una famiglia dell’alta borghesia milanese, l’agiatezza aveva peraltro radici profonde, tutti i suoi avi erano persone colte e facoltose, e in questo humus già favorevole, trovò la via più naturale per la sua formazione. In gran parte dedita agli studi e alla ricerca, alla scoperta dei grandi valori culturali legati al suo tempo, e al passato. Aveva seguito studi classici, frequentando ginnasio e liceo in un istituto superiore di Milano, città nella quale risiedeva, seguita da insegnanti che avevano stimolato le sue innate inclinazioni verso la letteratura, incentivato la curiosità e la passione per la cultura, la filologia e l’estetica.
Erano canali privilegiati, che le permisero di conseguire, ancora giovanissima, e col massimo dei voti, la laurea in Lettere e Filosofia. Aveva 23 anni, e un grande desiderio di scoprire i lati più inediti dell'umanità, aprire nuove prospettive davanti a sé, raggiungere l’essenza delle cose con lo speciale scandaglio di un intuito sopraffino.
Sempre accompagnata da uno stato malinconico, che le camminava a fianco come un’ombra discreta; più acuto si rivelava il suo sentire, più fatale il suo presentire. Prerogative personali che rendevano fertili gli stati d’animo, li proiettavano verso la profondità dell’essere e della natura che le stava intorno, che lei cercava quasi spasmodicamente, fino alla verità ultima delle cose, allontanandosi anche per mesi dall’accogliente e sontuosa casa milanese, per vivere in un luogo di soggiorno montano, ai piedi delle Alpi.
Pasturo era un piccolo centro, citato anche dal Manzoni ne 'I promessi sposi'. Cercava con tutte le sue forze una simbiosi con la montagna, la Pozzi ne trasponeva lo spirito in versi bellissimi, ai quali affidava tutti gli spasimi dei conflitti più intimi, mentre la vita, lentamente, diventava una rima aliena, non in armonia con quel subbuglio interiore che l’affliggeva senza scampo.
Il suo era un istinto acuto, che apriva tunnel misteriosi anche davanti alla gente e al mondo che le stava intorno, non le permetteva di soffermarsi nei prospetti di un lungo disegno di vita, e di progetti che delineassero una linea sicura per l’avvenire: era un procedere legato all’evasione, alla fuga. Si sentiva immotivata alla vita e senza un alibi per la morte.

Naufraghi sugli scogli,
ognuno narra
a sè solo - la storia
di una dolce casa
perduta,
sè solo ascolta
parlare forte
sul deserto pianto
del mare -

Triste orto abbandonato l'anima
si cinge di selvagge siepi
di amori:
morire è questo
ricoprirsi di rovi
nati in noi.

Antonia percepiva tutto ciò che alla gente comune passava accanto come aria informe, davanti a lei fluttuavano le onde di un sentire che rendevano eclettico e fertilissimo il pensiero. Tutto questo con naturalezza estrema. Anche l’impulso di cercare nella natura un’interlocutrice che mediasse tra il suo male sottile e il desiderio di luce, era un indice di quel tentativo vano di riportare equilibrio tra i pilastri fondanti di un’esistenza che aveva necessità di un assetto più solido, certezze che le permettessero di lasciare quel suo andare nel sottosuolo.
Solo la Poesia, dopo il liceo, diventò ragione di vita, le permise di unire le faglie mobili e precarie del suo modo d’essere. Non fu ponte di transito per oltrepassare il confine di quel malessere divorante, ma comunque ‘riparo sotto roccia’, confidente sicura e consolante, acqua trasparente che portava sempre in altre sponde la sublimazione di un procedere senza ritorno. Come un paradosso tra l’aspirazione alla normalità e l’arresa davanti al senso del nulla che incombeva.
Neppure l’amore, quello vero e autentico, incontrato al liceo, via non convenzionale, certo non aderente alle aspettative della casa austera e piena di rigore borghese dalla quale proveniva, aveva dato un senso alla sua esistenza. O forse glielo aveva dato in maniera così netta e profonda, da lasciare tutto il resto in penombra, privo di attrattive.
Un amore sfortunato, nato a scuola, nell’esiguo spazio che separa la cattedra dai banchi. E non era preparata, forse, ad una sfida così potente e travolgente; ad un sentimento che s’impose con irruenza, e di lei si prese anche la ragione. Fu un amore contrastato dalla famiglia, in particolare dal padre, che non mostrò mai disponibilità o comprensione verso la felicità di Antonia. Fece di tutto infatti per allontanarla da quel professore di Greco giudicato scellerato e invadente, eppure affascinante agli occhi di lei, semplicemente perché rappresentava i grandi valori nei quali credeva.

 


Totale affinità e simbiosi tra loro, tali da aprire brecce davanti all’impossibile, far scorrere binari d’intesa anche nell’aria che respiravano quando erano lontani. Un Amore speciale, che insidiava tutti i cliché delle convenzioni nelle quali la poetessa viveva, e ai quali suo malgrado era affettivamente legata.
Non ebbe mai il coraggio di recidere quelle redini e di fare una scelta determinante e chiara, che la realizzasse veramente, dando un senso compiuto alla sua esistenza. Antonia non aveva forse una personalità incline agli strappi, quelli che pongono fine al tormento e alle insicurezze, e che sono talvolta gli alleati più fedeli della felicità alla quale si aspira.
E’ probabile che lei stessa, comprendendo gli opportunismi della sua famiglia, che in fin dei conti condannava l’amore per il professore di greco, sacrificandolo senza remore né scrupoli alla dignità della loro condizione, abbia cercato di dimenticare. Ma in realtà questi tentativi consci o inconsci non riuscirono a portare serenità nella sua esistenza. Si traspose come uno spettro in altre inutili esperienze, le visse accanto come un sogno mancato, le chiese conto di ogni strategia volta a inventare un cielo nuovo davanti a sé, attraverso lontananze che in fondo, viaggiavano con lei, portando fin nelle ossa quelle emozioni represse.
Scelte fatali, che rimandano ad un’altra sfortunata poetessa americana, Sylvia Plath, non a caso anche lei, morta suicida in giovane età, e a loro, come un’irreale cordata, si unisce Anne Saxton, anch’essa poetessa, anch’essa morta suicida in giovane età.
Difficile dire che quel sentimento contrastato, causa di tanto dolore per Antonia Pozzi, sia stato la causa ‘scatenante’ della tragica fine, vi era un substrato psicologico di fondo che la rendevano affine alle inconsistenze e insidie del vissuto. In definitiva tutti questi processi avvenivano in uno scenario intimo vulnerabile ed esposto ai cataclismi della sorte.
Aveva solo gli scarponi di montagna che le permettevano di allontanarsi dai rituali della sua vita borghese, per cercare le ragioni oscure delle cose, tra i crinali innevati del mondo che tanto amava, la montagna. Qui dialogava con una natura che sapeva rispondere soltanto con la sua bellezza e il suo fascino, ma che nonostante queste incommensurabili grandezze, non coprivano il freddo e la desolazione che aveva nel cuore.
La poesia veicolava i suoi stati d’animo, nulla celava dei suoi umori e dell’anima fradicia di dolore, tutto portava a valle, e convogliava negli argini della parola, della quale lei, pur giovanissima, era maestra. La poesia l’avvolgeva come una coperta calda e rassicurante, era un’interlocutrice che sapeva sollevarla dal suolo e portarla in alto, più in alto delle vette che lei raggiungeva e talvolta scalava, amante com’era dell’ambiente alpestre nel quale trascorreva lunghi periodi di tempo, quasi in assoluta solitudine.
Dialogico era quel silenzio, sapeva cogliere le voci nascoste dei misteri che attraversano le cose in apparenza inanimate, il suo pensiero era un potentissimo scandaglio, che amava andarsene per i fatti suoi. In fondo Antonia Pozzi aveva uno spirito libero, anche se le mancava l’intraprendenza e il coraggio per una totale affermazione del proprio sé.
E’ evidente la spontaneità espressiva e semantica del suo comporre, frutto di una ricerca interiore che ha seguito un preciso impulso naturale, e per questo ogni singola composizione esprime il pregio dell’arte autentica. Purtroppo resta il rimpianto della sua precoce scomparsa, di quella sua fretta d’andare, senza svelare esattamente i contorni drammatici di quel congedo inaspettato, che ha lasciato tutti attoniti, compresi i suoi compagni di viaggio nell’arte del comporre in versi, Vittorio Sereni, per esempio, che conobbe durante gli anni degli studi universitari, proprio lui la stimò e le fu amico in momenti difficili.
Antonia ci ha lasciato una preziosa eredità di testi poetici e scritti di carattere personale, che il padre tentò perfino di contraffare dopo la sua scomparsa, ma le cui copie autentiche furono poi recuperate anche grazie agli studi universitari di una religiosa che scrisse la tesi proprio sulla poetessa, ed ebbe accesso a tutte le carte conservate nelle biblioteche milanesi. Mi piace chiudere le personali riflessioni su questo genio poco conosciuto della poesia italiana, con alcune riflessioni eloquenti, tratte dal folto epistolario:
“La poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi di vita. Quando tutto, ove siamo, è buio ed ogni cosa duole e l’anima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime, e sa dire quello che a noi grida, imprigionato, nel cuore..”

 

 

 

...Dove l'arte incontra il cielo,il mare, spirito e materia nascono bellissime energie e sinergie... (Stefania Miola)

 

 

"L’arte è libertà” e le opere di Pino Cannatà sprigionano in primis   un grande senso di libertà espressiva di materia, di colore e Vita. La sua arte è libera oltre agli schemi, oltre alle mode, oltre il tempo.

  Un’arte, concepita dallo stesso artista spiritualmente ed energeticamente legata in modo inscindibile alla memoria del mare.

Il mare ha da secoli ispirato gli artisti e la loro sensibilità ad esprimere attraverso la mera raffigurazione ,le  sue infinite forme, i colori.  L’acqua  carica di rimandi simbolici è uno dei soggetti  più ardui  da riprodurre col pennello. Trasparente,  incolore, indomabile.  Ondeggia, fluisce, si muove, s’increspa, s’adatta, riluce, s’offusca. Materia e soggetto al tempo stesso.

E’ tra gli artisti più conosciuti al mondo che raffigurano il mare ma al tempo stesso si distingue da tutti gli artisti per il suo modus operandi che lo rende assolutamente unico ed inimitabile.

 Cannatà rielabora la raffigurazione artisticamente statica del mare in una chiave espressiva contemporanea assolutamente singolare.  Ne apre una visione nuova, che coinvolge l’osservatore su più livelli inducendolo ad andare oltre la superficie pittorica. Opere dall’impatto emotivo altissimo.

Innovazione tecnica, sperimentalismo cromatico, originalità della composizione, effetti luministici inaspettati foggiano una nuova visione del mondo artistico  chiamata  “Energy  Sea Painting”.

Il termine è stato coniato dopo lunghe disquisizioni sull’arte , la storia e stile pittorico intercorse tra me e  l’artista.

E' l'indirizzo artistico, fondato sull’energia/luce, la forza del mare . Attraverso l’ azione congiunta del pittore e il mare viene generata l’opera pittorica.

La mission è trasmettere nel fruitore/osservatore energia purificatrice, libertà e bellezza in modo intelligibile. Opere libere che non risentono e non attingono ispirazione dalle correnti, dai movimenti artistici legati al concetto di  tempo e al tessuto storico-politico.

Non è una mera   “ Action painting” a volte chiamata letteralmente "pittura d'azione",dove il colore  è spontaneamente dribblato, spruzzato o spalmato sulla tela, piuttosto che essere applicato con attenzione ma subentra il fattore energia del mare  che guida l’artista durante la creazione delle opere.

Io non sono il pittore del mare, io il mare lo faccio dipingere” dichiara Cannatà.

Cannatà non è un’artista comune. E’ un uomo che canalizza l’energia del mare dentro di sé e diventa strumento del mare che attraverso di lui trova l’interprete  del suo linguaggio misterioso ,messaggero delle sue memorie sulla storia del mondo. Artisti in passato facevano utilizzo  della foglia d’oro per dare una valenza divina alle proprie opere, Cannatà crea una magica alchimia fra spirito e materia mescolando l’acqua di mare al colore utilizzato per creare l’opera .

Dal 1998 l’artista per creare le sue opere naviga il mare con la sua Barca Sayonara ,trasformata in un vero studio galleggiante.

L’azione pittorica a bordo della barca dipende non solo dall’artista ma anche dai movimenti e dalla forza del mare che modifica completamente la gestualità pittorica  in perfetta simbiosi con il moto ondulatorio del mare. Uno stile pittorico caratterizzato dal continuo cambiamento e trasformazione sottoposto prevalentemente ai fattori meteorologici che aumenta il livello di difficoltà dell’azione pittorica.

Durante  le tempeste in mare aperto  l’artista si carica della  forza e dell’energia del mare ( come una batteria  che si carica di energia salata) poi  una volta ritornato in studio sulla terra ferma attua il transfert sulle tele dell’energia che il mare gli ha donato.

“Io il mare lo faccio dipingere” . L’Artista non solo dipinge le sue opere canalizzando l’energia donata dal mare,  ma durante la navigazione (i viaggi nel blu) mette a disposizione del mare gli strumenti per dipingere spontaneamente. Una “ live” performance  dove è il mare ad essere protagonista assoluto.

Negli anni 90 questo “live“ performance  era considerata e lo è tuttora innovativa, geniale ed estremamente originale  nel panorama artistico mondiale.

Tele sparse all’interno dell’imbarcazione e colori in libertà nei barattoli aperti. Il moto fisico e ondoso dell’acqua, onde trasversali, longitudinali a seconda che la direzione di oscillazione sia parallela o perpendicolare, la frequenza dell’onda e delle sue vibrazioni, i sussulti del mare fanno saltare i colori che volano sulle tele imprimendo segni, tracce  e i racconti liberi del mare infinito. La natura creatrice impressa sulla tela. Opere dalla Bellezza allo stato puro,primordiale.

Non solo. Cannatà affida al mare  che diviene veicolo di cultura delle bottiglie di vetro trasparente in cui inserisce degli acquerelli dietro ai quali è inserito un messaggio “ aiutaci a salvare il mare”.

Una di queste bottiglie, dopo aver viaggiato in mare per cinque anni, è attualmente custodita nell’appartamento privato di Papa Francesco.

Ora mentre tu caro fruitore dell’arte stai leggendo questa prefazione una di queste bottiglie di vetro trasparente  lasciata libera ai flutti del mare, da qualche parte in questo mondo è stata raccolta con occhi pieni di stupore da un bambino, da una donna innamorata, da un uomo che combatte per realizzare il sogno di una vita o forse spostandoci con l’immaginazione fra un centinaio di anni una di queste bottiglie verrà ritrovata unita ad un fossile da una nuova generazione di uomini raccontando loro una storia di Eternità e d’amore e d’arte firmata Cannatà pittore navigatore.

Non esiste parola per la verità. La bellezza/verità deve scendere lentamente negli abissi e risalire in superficie donando all’uomo occhi nuovi in grado di andare oltre alla superficie visibile dell’opera d’arte.

La consapevolezza di essere parte di un qualcosa di più grande, dove ogni particella di sale, ogni cellula,  ogni goccia diviene parte della grande opera in modo inscindibile e in cui tutti siamo chiamati a contribuire assecondando il destino senza perdere la visione della bellezza, dell’amore e della conseguente libertà.

L’artista ascolta i silenzi del mare che raccontano le sue memorie di secoli. Un eco di vite vissute intensamente . Dalle onde  emergono i personaggi, dagli abissi il canto delle sirene che riportano a casa i marinai e l’artista  si sente chiamato dal mare a dipingere ciò che ha visto e sentito raccontare.

Il mare è completamente dentro di lui con la sua forza, con la sua energia. E quell’energia scende lungo le braccia e dalle mani fino al pennello che posato sulla tela sa  cosa dovrà  modellare e dipingere : i racconti del mare.

Come un’onda dipingerà spesso ad occhi chiusi e con le mani nude finché lo spirito del mare  non sarà liberato totalmente e  riversato  sulla tela.

E’ sempre il mare a scegliere  i colori e a guidare  la sua mano. Indomabile, irrefrenabile e l’artista lo lascia agire liberamente. Il colore si fa segno, gesto,vortice di pura energia. Nulla è casuale o improvvisato, tutto è preciso e segue schemi ben orientati dove la visione di bellezza acquista sempre maggiore intensità.

 

 

 

Le opere di Cannatà le potete trovare  esposte nelle  grandi Gallerie d’Arte internazionali,ma

questa location non  rappresenta la regola per un uomo di sale e artista di mare.

Le sue opere le  troverete  sempre nella grandissima e libera Galleria del Mondo, dove è il mondo circostante a diventare una galleria d’arte. Palcoscenico gratuito immerso nella natura dove l’uomo – artista Pino Cannatà può comunicare liberamente  la sua visione dell’arte, i suoi racconti di mare e di sirene su una spiaggia accanto ad un focolare insieme ai pescatori e gente comune.

 

 “L’arte nelle sue molteplici forme deve saper trasmettere nell’immediato l’urlo di vita e stupore di un bambino appena venuto al mondo. Deve far emergere il divino, la pura essenza, la libertà dell’essere, il moto della vita nel suo continuo ed eterno rinnovarsi, deve fa riconciliare l’uomo con tutto l’universo”.  (Stefania Miola)

 

Opera dell'articolo: Onda del Sahara - Acrilico Olio su tela  60*60 anno 2019 collezione privata Torino

" Ero al largo di Sharm El  Sheikh quando ad un tratto un'ondata di sabbia del deserto, diventò cielo e si mescolò al Mar Rosso"

 

 

 

Persephone, figlia di Demètra (o Cèrere, divinità terrestre delle messi dorate, cioè dell'agricoltura) e moglie di Ades (o Plutone, re del mondo dei morti), trascorreva un periodo dell'anno presso la madre e l'altro nel regno delle ombre.
Prima di diventare signora dell'Oltretomba, dimorava con la madre in Sicilia, dove era stata notata da Ades, che l'aveva voluta sposare. Un giorno Ades, uscendo alla luce del sole, vide Persephone che si godeva la frescura di un bosco appartato, tutto cosparso di viole e di candidi gigli; era accompagnata dalle Ninfe (divinità femminili delle fonti e delle acque), che a gara raccoglievano fiori profumati per farne corone e ghirlande. Persephone, più brava delle altre, aveva già riempito alcuni cestini con fiori e altri ne aveva messi nel lembo della veste. Ades, innamorato di Persephone, la rapì e, trascinatala sul suo cocchio dorato, spronati i veloci cavalli neri come la notte, la portò nel suo palazzo. Piansero le Ninfe e portarono la cattiva notizia a Demètra, che, nella speranza di ritrovare la figlia, dimentica delle sue funzioni e dei suoi compiti, vagò di terra in terra, invocandone il nome. Alla fine si rivolse a Zeus (o Giove, re degli dèi) perché intervenisse preso Ades e lo inducesse a restituirle Persephone.

 


Ne frattempo la natura, trascurata dalla dea, era diventata triste: i fiori erano appassiti, le piante non avevano più le loro belle foglie verdi, i frutti non maturavano, le messi non imbiondivano. Tutto sembrava preso da un sonno simile alla morte. In un primo tempo Ades non volle saperne di mandare Persephone sulla terra. Ormai essa era diventata la regina depositaria dei segreti del mondo sotterraneo. Ma, alla fine, la volontà di Zeus vinse ogni resistenza: Persephone sarebbe stata per sei mesi nel regno delle ombre e per gli altri sei sulla terra, presso la madre Demètra. Ogni anno, quando Persephone ritorna sulla terra, la natura si riveste del suo abito più bello: sbocciano i fiori profumati, rinverdiscono le piante e i campi e un dolce zefiro soffia leggero trasportando profumi odorosi. E' la gran festa della natura, la sua ripresa, la vita fervente che accompagna il rinnovarsi del ciclo delle stagioni.

 

 

 

 

di Silvia Giampà

Definita “la poetessa crepuscolare”, Sandra de Felice è nata a Scafa (PE) e vive a Pescara con la sua famiglia.

Risale al 1988 la sua prima pubblicazione, dal titolo “Frammenti di Luna” (Casa Editrice Tracce di Pescara). Si tratta di una raccolta di poesie d’amore con la quale, la poetessa, ha, in seguito, partecipato alla realizzazione di diverse antologie.

 

 

Nel 2011 esce una seconda raccolta di poesie, “Trasparenze”, pubblicato dalla Casa Editrice Aletti.

 

 

Nel 2014, per la Casa Editrice Pagine, ha partecipato alla realizzazione della Collana Riflessi con una raccolta di poesie dal titolo “Bagliori Autunnali”. Ha, inoltre, contribuito alla realizzazione di varie “Agende del Poeta”.

La sua terza raccolta di poesie, dal titolo “Dipinti Poetici” è stata pubblicata nel marzo del 2016 dalla Casa Editrice Ermes Servizi Integrali S.r.l. di Ariccia.

 

 

I libri menzionati sono pubblicati anche on line sul Portale Calameo e su altri siti.

Nel marzo del 2019 è stato pubblicato il suo quarto lavoro, il Collage Poetico e fotografico dal titolo “La solitudine del mare d’inverno” e, nel mese di ottobre dello stesso anno, la quinta raccolta di poesie dal titolo “Evanescenze” edita dalla Casa Editrice Le Mezzelane.

 

 

 

La poetessa Sandra De Felice è iscritta ad importanti associazioni culturali di rilevanza nazionale e partecipa costantemente alla realizzazione di antologie di autori vari. Si cita, ad esempio, la prestigiosa “Enciclopedia dei Poeti Italiani Contemporanei” (Aletti Editore, 2009).

Su “Vortice” è presente con un componimento di poesie dal titolo “Il Mare, gli Amanti e il Poeta”.

Gentile Sandra, sei stata definita “la poetessa crepuscolare”. Ci vuoi raccontare come ti sei avvicinata alla poesia?
«Mi sono avvicinata alla poesia dall’infanzia, dalle scuole elementari. Poi, alle medie scrivevo sul giornalino della scuola. Da piccola, tenevo sempre un diario dove riportavo pensieri e sensazioni, nel bene e nel male, che mi hanno fatto compagnia nel corso della vita. La scrittura ha un effetto terapeutico per me, mettere su carta gioie e dolori è liberatorio. Ritengo la scrittura un modo di comunicare con gli altri e, magari, infondere speranza».

Da cosa trai ispirazione quando scrivi?
«Trovo ispirazione nei miei stati d’animo, positivi o negativi che siano. L’amore è il protagonista della mia poesia, visto nelle mille sfumature del sentimento e dell’espressione».

Quali sono i tuoi autori preferiti?
«Ho scoperto la poesia leggendo Pablo Neruda. Grazie al poeta cileno e alla bellezza dei suoi versi, ho scoperto la poesia della sensualità e dell’amore inteso come passione. Poi, crescendo e maturando, mi sono nutrita delle opere di Quasimodo e di Montale. Ho letto anche Ungaretti. Il cuore è stato, inoltre, rapito da Pavese e Alda Merini. Non può mancare l’amore per Gabriele D’Annunzio essendo io di Pescara!».

- Prima di salutarci, potresti dirci qual è la tua poesia preferita? 
«Amo molto la mia poesia dal titolo "Emozione al crepuscolo"».

 

EMOZIONE AL CREPUSCOLO

Al crepuscolo
sono un canto suadente
spiegato
nella brezza marina,
una nuvola soffice
che al limite
sovrasta l'orizzonte infuocato,
sono un sogno impetuoso
di luce acceso
che trapassa l'oblio.
Al crepuscolo
sono una lacrima d'amore
versata
in questa eternità
che mi appassiona,
nell'incanto tutto intorno
sono un infinito,
adagiato
sul tappeto rosa
del crepuscolo
che acceso cattura il mare
e purpureo lo riveste.

Sempre attiva in ambito letterario, la poetessa ci svela che è impegnata nella preparazione di una nuova opera poetica...
Non ci resta, quindi, che attendere la pubblicazione del prossimo libro di Sandra De Felice!

 

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