Colors: Orange Color

When day comes, we ask ourselves where can we find light in this never-ending shade? (Quando arriva il giorno, ci chiediamo dove possiamo trovare una luce in quest’ombra senza fine?)

da “The Hill We Climb” (La collina che scaliamo) di Amanda Gorman

Se la poesia non riesce a salvare il mondo può sicuramente rischiararlo. E’ quello che ha fatto la ventiduenne Amanda Gorman, giovane poetessa afroamericana laureata ad Harvard che è riuscita ad incantare Joe Biden durante un recital al punto da salire a Capitol Hill e, sesta nella storia del suo Paese, accompagnare il giuramento di Biden con una poesia scritta da lei stessa. Pur così giovane, Amanda ha già ottenuto il prestigioso National Youth Poet Laureate che la fa volare in alto con le sue aspirazioni artistiche. Il messaggio della poesia appare chiaro: guadare il fiume e risalire la collina dopo un periodo nell’ombra, nella certezza che la nazione non possa dichiararsi spezzata se una ragazzina di colore cresciuta da una mamma single può ancora sognare di diventare Presidente e di recitare davanti alla nazione. Applaudita da Barack e Michelle Obama, Amanda ha lasciato il segno con la sua presenza e per usare le sue parole ci siamo riappropriati dell’alba perché esisterà sempre la luce nonostante l’ombra.

La poesia come genere letterario non gode sempre del plauso del pubblico. Poco propensi alla lettura e interpretazione dei versi, gli italiani preferiscono generalmente leggere romanzi e sono abbastanza selettivi nella scelta della tipologia. Il poeta vive quindi isolato nella sua torre segreta riuscendo a condividere i suoi pensieri con pochi, scrivendo di notte per citare la grande Alda Merini. Alla poesia non viene quindi assegnato un ruolo sociale e il suo impatto sulle coscienze non viene considerato determinante dai più.

L’evento di Capitol Hill si pone in contrapposizione rispetto alla visione generalizzata sul potere dei versi. Amanda usa uno strumento antico per veicolare un messaggio di forte contenuto politico, sociale ed umano dimostrando come la forma di letteratura più vecchia, la poesia appunto, venga apprezzata maggiormente all’estero. Nei suoi versi la giovane alterna immagini di luce ed ombra, ossimori di forte componente emozionale per annunciare un agognato cambio di regia alla guida degli Stati Uniti e del mondo intero. Senza paura ricorre a termini crudi dove la bestia si oppone a valori quali la pace e la giustizia e finisce per rassicurare il popolo americano: la nazione non è spezzata se una giovane afro-americana può ancora parlare a tutti proprio come lei ha fatto durante la cerimonia di inaugurazione.

Consapevole della difficoltà di unire un paese così variegato per etnie, cultura, colori, e condizioni sociali Amanda insiste sulla necessità di unire includendo le stesse differenze e guardando al passato per rinascere come nuovi. La giovane poetessa usa strumenti e meccanismi poetici quali l’allitterazione per contrapporre “blade”, lama, a “bridge”, ponte, escludendo completamente ogni idea di violenza e proponendo invece solidarietà tra i popoli.

La democrazia è stata solo ritardata ma non sconfitta. Sarà possibile scalare la collina se saremo in grado di osare: Amanda insiste sulle ferite del suo paese ma allo stesso tempo evidenzia la necessità di reagire all’inerzia e alle intimidazioni e preparare il terreno per le generazioni future alle quali va lasciato un paese migliore. La metafora della collina è forte e densa e l’uditorio ne è rimasto contagiato. Le parole della poesia volano alto ed includono ogni angolo del paese per legare le coscienze scosse dagli ultimi tragici eventi nell’attesa di una nuova alba, come solo Marthin Luther King era riuscito a fare prima di lei.

Lucia Lo Bianco

IL TESTO DELLA POESIA, NELLA SUA VERSIONE ORIGINALE

When day comes, we ask ourselves where can we find light in this never-ending shade?
The loss we carry, a sea we must wade.
We’ve braved the belly of the beast.
We’ve learned that quiet isn’t always peace,
and the norms and notions of what “just” is isn’t always justice.
And yet, the dawn is ours before we knew it.
Somehow we do it.
Somehow we’ve weathered and witnessed a nation that isn’t broken,
but simply unfinished.
We, the successors of a country and a time where a skinny Black girl descended from slaves and raised by a single mother can dream of becoming president, only to find herself reciting for one.

And yes, we are far from polished, far from pristine,
but that doesn’t mean we are striving to form a union that is perfect.
We are striving to forge our union with purpose.
To compose a country committed to all cultures, colors, characters, and conditions of man.
And so we lift our gazes not to what stands between us, but what stands before us.
We close the divide because we know, to put our future first, we must first put our differences aside.
We lay down our arms so we can reach out our arms to one another.
We seek harm to none and harmony for all.
Let the globe, if nothing else, say this is true:
That even as we grieved, we grew.
That even as we hurt, we hoped.
That even as we tired, we tried.
That we’ll forever be tied together, victorious.
Not because we will never again know defeat, but because we will never again sow division.

Scripture tells us to envision that everyone shall sit under their own vine and fig tree and no one shall make them afraid.
If we’re to live up to our own time, then victory won’t lie in the blade, but in all the bridges we’ve made.
That is the promise to glade, the hill we climb, if only we dare.
It’s because being American is more than a pride we inherit.
It’s the past we step into and how we repair it.
We’ve seen a force that would shatter our nation rather than share it.
Would destroy our country if it meant delaying democracy.
This effort very nearly succeeded.
But while democracy can be periodically delayed,
it can never be permanently defeated.
In this truth, in this faith, we trust,
for while we have our eyes on the future, history has its eyes on us.
This is the era of just redemption.
We feared it at its inception.
We did not feel prepared to be the heirs of such a terrifying hour,
but within it, we found the power to author a new chapter, to offer hope and laughter to ourselves.
So while once we asked, ‘How could we possibly prevail over catastrophe?’ now we assert, ‘How could catastrophe possibly prevail over us?’

We will not march back to what was, but move to what shall be:
A country that is bruised but whole, benevolent but bold, fierce and free.
We will not be turned around or interrupted by intimidation because we know our inaction and inertia will be the inheritance of the next generation.
Our blunders become their burdens.
But one thing is certain:
If we merge mercy with might, and might with right, then love becomes our legacy and change, our children’s birthright.

So let us leave behind a country better than the one we were left.
With every breath from my bronze-pounded chest, we will raise this wounded world into a wondrous one.
We will rise from the golden hills of the west.
We will rise from the wind-swept north-east where our forefathers first realized revolution.
We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states.
We will rise from the sun-baked south.
We will rebuild, reconcile, and recover.
In every known nook of our nation, in every corner called our country,
our people, diverse and beautiful, will emerge, battered and beautiful.
When day comes, we step out of the shade, aflame and unafraid.
The new dawn blooms as we free it.
For there is always light,
if only we’re brave enough to see it.
If only we’re brave enough to be it.

IL TESTO DELLA POESIA, TRADOTTO IN ITALIANO

Quando arriva il giorno, ci chiediamo dove possiamo trovare una luce in quest’ombra senza fine?
La perdita che portiamo sulle spalle è un mare che dobbiamo guadare.
Noi abbiamo sfidato la pancia della bestia.
Noi abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace,
e le norme e le nozioni di quel che «semplicemente» è non sono sempre giustizia.
Eppure, l’alba è nostra, prima ancora che ci sia dato accorgersene.
In qualche modo, ce l’abbiamo fatta.
In qualche modo, abbiamo resistito e siamo stati testimoni di come questa nazione non sia rotta,
ma, semplicemente, incompiuta.
Noi, gli eredi di un Paese e di un’epoca in cui una magra ragazza afroamericana, discendente dagli schiavi e cresciuta da una madre single, può sognare di diventare presidente, per sorprendersi poi a recitare all’insediamento di un altro.

Certo, siamo lontani dall’essere raffinati, puri,
ma ciò non significa che il nostro impegno sia teso a formare un’unione perfetta.
Noi ci stiamo sforzando di plasmare un’unione che abbia uno scopo.
(Ci stiamo sforzando) di dar vita ad un Paese che sia devoto ad ogni cultura, colore, carattere e condizione sociale.
E così alziamo il nostro sguardo non per cercare quel che ci divide, ma per catturare quel che abbiamo davanti.
Colmiamo il divario, perché sappiamo che, per poter mettere il nostro futuro al primo posto, dobbiamo prima mettere da parte le nostre differenze.
Abbandoniamo le braccia ai fianchi così da poterci sfiorare l’uno con l’altro.
Non cerchiamo di ferire il prossimo, ma cerchiamo un’armonia che sia per tutti.
Lasciamo che il mondo, se non altri, ci dica che è vero:
Che anche nel lutto, possiamo crescere.
Che nel dolore, possiamo trovare speranza.
Che nella stanchezza, avremo la consapevolezza di averci provato.
Che saremo legati per l’eternità, l’uno all’altro, vittoriosi.
Non perché ci saremo liberati della sconfitta, ma perché non dovremo più essere testimoni di divisioni.

Le Scritture ci dicono di immaginare che ciascuno possa sedere sotto la propria vite e il proprio albero di fico e lì non essere spaventato.
Se vorremo essere all’altezza del nostro tempo, non dovremo cercare la vittoria nella lama di un’arma, ma nei ponti che avremo costruito.
Questa è la promessa con la quale arrivare in una radura, questa è la collina da scalare, se avremo il coraggio di farlo.  
Essere americani è più di un orgoglio che ereditiamo.
È il passato in cui entriamo ed è il modo in cui lo ripariamo.
Abbiamo visto una forza che avrebbe scorsso il nostro Paese anziché tenerlo insieme.
Lo avrebbe distrutto, se avesse rinviato la democrazia.
Questo sforzo è quasi riuscito.
Ma se può essere periodicamente rinviata,
la democrazia non può mai essere permanentemente distrutta.
In questa verità, in questa fede, noi crediamo,
Finché avremo gli occhi sul futuro, la storia avrà gli occhi su di noi.
Questa è l’era della redenzione.
Ne abbiamo avuto paura, ne abbiamo temuto l’inizio.
Non eravamo pronti ad essere gli eredi di un lascito tanto orribile,
Ma, all’interno di questo orrore, abbiamo trovato la forza di scrivere un nuovo capitolo, di offrire speranza e risate a noi stessi.
Una volta ci siamo chiesti: “Come possiamo avere la meglio sulla catastrofe?”. Oggi ci chiediamo: “Come può la catastrofe avere la meglio su di noi?”.

Non marceremo indietro per ritrovare quel che è stato, ma marceremo verso quello che dovrebbe essere:
Un Paese che sia ferito, ma intero, caritatevole, ma coraggioso, fiero e libero.
Non saremo capovolti o interrotti da alcuna intimidazione, perché noi sappiamo che la nostra immobilità, la nostra inerzia andrebbero in lascito alla prossima generazione.
I nostri errori diventerebbero i loro errori.
E una cosa è certa:
Se useremo la misericordia insieme al potere, e il potere insieme al diritto, allora l’amore sarà il nostro solo lascito e il cambiamento, un diritto di nascita per i nostri figli.

Perciò, fateci vivere in un Paese che sia migliore di quello che abbiamo lasciato.
Con ogni respiro di cui il mio petto martellato in bronzo sia capace, trasformeremo questo mondo ferito in un luogo meraviglioso.
Risorgeremo dalle colline dorate dell’Ovest.
Risorgeremo dal Nord-Est spazzato dal vento, in cui i nostri antenati, per primi, fecero la rivoluzione.
Risorgeremo dalle città circondate dai laghi, negli stati del Midwest.
Risorgeremo dal Sud baciato dal sole.
Ricostruiremo, ci riconcilieremo e ci riprenderemo.
In ogni nicchia nota della nostra nazione, in ogni angolo chiamato Paese,
La nostra gente, diversa e bella, si farà avanti, malconcia eppure stupenda.
Quando il giorno arriverà, faremo un passo fuori dall’ombra, in fiamme e senza paura.
Una nuova alba sboccerà, mentre noi la renderemo libera.
Perché ci sarà sempre luce,
Finché saremo coraggiosi abbastanza da vederla.
Finché saremo coraggiosi abbastanza da essere noi stessi luce.

 

 

 

Ero una bambina a cui piaceva giocare sia con le bambole e sia con le macchinine, soprattutto telecomandate.
Chissà forse in me vi era già il concetto dell’uguaglianza.
Il mio ideale: mia madre.
Bella, forte, intelligente, quell’intelligenza derivante anche dal sacrificio, dalla rinuncia e un’ironia fragorosa.
Avevo un viso vestito da maschio, capelli corti ricci, nessuna vanità, nessuna ambizione sentimentale e nessun trucco.
Un giorno un mio amichetto mi disse:”diventerai una bellissima donna”. Ma a me piaceva stare da sola, con i miei sogni e il mio diario.
La mia felice malinconia ed il mio sentire oltre l’immagine.
Fin da piccola non amavo le spicciole conversazioni del niente, osservavo con lo sguardo trasversale, perché lì vi era l’anima.
Non mi chiedevo i perché... sapevo che non vi era una sola risposta.
Forse in me si designava l’aporia.
Questo giorno giunse... ( quello del mio amichetto). Un mio riverbero mattutino mi rivelò i miei lineamenti, erano niente male, erano adulti e pregni di mia madre e di mio padre.
Si, un fortunato incontro di geni.
Ma non mi prolungai più di tanto, davo più attenzione al mio contorno, perché sapevo che vi erano diverse vie di fuga.
Continuai negli anni a seguirle, a percorrerle ma non trovai mai nessun punto di arrivo.
I miei punti di arrivo sono parallelamente incerti.
La mia natura è osservare...
quella retta che non incontra mai un punto ma nel viaggio nel raggiungerlo diviene adulta.
Le mie certezze sono dubbi!
Chi non si pone domande non avrà risposte, non avrà la possibilità di toccare i contorni, gli orli indefiniti un’emozione o di un’utopia o di una logica serenità. Perché in essi vi è sempre un impalpabile verità. Tra tante verità bugiarde.
Ricordo una citazione:
«L’ingegno di un uomo si giudica meglio dalle sue domande che dalle sue risposte».
Concludo con:
Rivolgo la mia stima ai pochi superstiti che in sé possiedono l'acuità del silenzio nel percepire le domande prive di risposte.
Elogio l’intelligenza taciturna ma capillare, contro la superficialità fragorosa e caotica di bocche sguarnite di pensiero.

 

 

Laddove c'è fine, la genesi trova nella forma la sua ragione. Tutto ciò che termina trova nella sua storia immagini, parole, sensazioni, azioni, fato ed emozioni, tutto quello che permette alla storia di rimanere tua, di rimanere viva, di rimanere eterna! Partiamo da lì perché ciò che nel domani viviamo lo dobbiamo al passato più vicino, quello legato al nostro cuore e donato al nostro tempo. I quattro elementi naturali come acqua, terra, fuoco e aria hanno la caratteristica di essere in accordo, oppure, in opposizione tra di loro; dall’interazione di questi elementi hanno origine tutti i fenomeni del cosmo: la nascita, la morte, la trasformazione. Le forze che permettono l’interazione degli elementi sono due: l’amore, forza attrattiva, e la discordia (o odio), forza repulsiva. Quindi prendiamo il meglio di ciò che è passato nella forza e nello stato e rendiamolo nuovo per quello che verrà ...come il sole all'Alba del suo tramonto!

 

Anno 2020, molti dicono..."da dimenrticare" – ma questo, se ben pensiamo, sarà impossibile farlo o, comunque, difficile. Le parole più ricorrenti, che abbiamo ascoltato o letto, in tutti i giorni del decorso anno sono state: pandemia, emergenza, covid, vaccini. Ogni sera, poi, i bollettini legati al caos pandemico ci stampavano sulla pelle come un numero di matricola tatuato, la sofferenza della morte altrui. I pensieri del mondo, del nostro paese e/o del nostro comune, si sono avvolti attorno alle stesse parole.
Molti di noi, avendo nella vita appreso circostanze legate alla morte come conseguenza di innumerevoli tragedie, hanno pensato di essere pronti alle "emergenze". Abbiamo vissuto indirettamente terremoti, calamità, tragedie sociali che, però, coinvolgevano altri ed in tutti i casi riguardavano persone a noi sconosciute e, pertanto, non ci è stato consentito di "soffrire" poiché dopo avere acquisito le varie informazioni, è bastato un piccolo gesto sul telecomando per evadere da quei difficili momenti.
Ma oggi è toccato a noi e se non direttamente sono state coinvolte persone a noi vicine, parenti, amici o soggetti che avevamo incontrato anche solo un volta. Da ciò ne sono scaturiti dolori e sofferenze eclettiche che hanno trovato rivoli in ciascuno di noi, che ci ha colpito con effetto domino, che ci ha fatto percepire la metamorfosi della configurazione della terra, che ci ha fatto respirare la fisionomia del dolore, che ci ha fatto prendere coscienza di una "emergenza" globale presente tutti i giorni, tutte le ore, non valutabile, imponderabile, indefinibile e imprevedibile nelle conseguenze.
E' impossibile non pensare al lacerante patimento e afflizione di tutti coloro che non hanno potuto regalare la loro affettuosa presenza, l'amore, il saluto "finale" ai loro cari ricoverati in nosocomi o in case di riposo; impossibilità che lasceranno nel nostro futuro lacere ferite, incancellabili mancanze per i baci non dati, per le carezze non fatte, per i mancati saluti, per le lacrime non fluite.

Tutto questo certamente rimarrà alle nostre spalle ma ci saranno momenti per ricordare: di non avere a volte riconosciuto persone perchè indossavano la mascherina, l'impegno dei medici e degli infermieri, le regole, i ripensamenti politici, i mezzi militari in fila, con i fari che bucavano la nebbia e con i carichi di morte, le persone in fila fuori ai supermercati, alle farmacie, ai negozi (quando erano aperti), le persone in fila per prelevare un sacchetto con pochi necessari viveri, le lamentele di chi era stato costretto a chiudere l'attività senza ricevere aiuti da parte di uno Stato già in difficoltà, le ipotesi (a volte contrastanti) di quei virologi che – invece - avrebbero dovuto rassicurarci, alle condizioni di solitudine e di isolamento, la didattica a distanza dei nostri figli, la paura intrisa di disperazione di chi ha perso il lavoro e di coloro che sono stati messi ai margini.
Per ricordare i dolori e le sofferenze per la vita e per la morte.
Per ricordare l'immagine più forte, si, la più forte, quella del Santo Padre la sera del 27 marzo 2020, quando sotto il pianto del cielo, le pietre antiche contarono i suoi passi stanchi, che guidarono il candore di seta marezzata tra il bene e il male; quei passi che, giunti al bagnato Cristo, s'unirono al silenzioe all'irreale oblio del mondo. Vite nel buio perse stettero impietrite al fischio, al lampeggìo inibite, mentre, un sacro bronzo il Lete rallegrò. Il Santo Padre, inerme, al centro dello spazio vuoto, disegnò una croce e, sussurrando al vento l'urbi et orbi, ogn'uomo assolse. E Scorsero lacrime dentro le case.

 

 

Ieri un altro bambino ucciso per dispetto, ma passato nel più assoluto silenzio!
Neanche le belve ammazzano la prole.
Non basta più il virus che miete con la falce tante vittime ogni giorno! Ora ci si mettono di mezzo anche i padri che, armati dicoltello e di pistola, uccidono i figli per far dispetto alle mogli o compagne !
Io mi chiedo "Ma come fai, è tuo figlio, l'hai tenuto in braccio, quando è nato te lo sei stretto al cuore? Ora l'hai trasformato in arma di ricatto e tu sei diventato la più feroce delle belve!".
Per far dispetto all'altro tu lo uccidi, diventando carnefice e assassino ti macchi le mani del sangue di un bambino, tuo figlio! Ma che belva sei diventato?
Belva?
No.... le belve non ammazzano la prole!

 

 

Sono tre giorni che sento rimbombare nella mia testa le urla di una donna, che, dalla televisione, grida: "Non so neanche dov'è!" Chi? Di cosa parla?
Mi documento e capisco che in una RSA sono morte in modo atroce, asfissiate da monossido, delle ospiti, nel sonno. Alcune sono state portate nei vari ospedali di zona, altre sono morte, sole, senza un affetto, senza una parola, senza un familiare che le tenesse loro la mano!
Allora, io dico che è proprio vero il detto degli antichi: "Una mamma cresce 100 figli, ma 100 figli non possono avere cura di una mamma!". Anzi la chiudono in un ricovero!
E non mi si dica che è per impegni lavorativi, perché questi luoghi deposito di anziani sono anche molto cari!
Con la stessa spesa, e anche meno, si può incaricare una persona e lasciare il proprio caro o la propria cara a casa sua fra le cose che l'hanno accompagnato per una vita; allora anche l'altro detto risulta vero: "Occhio non vede, cuore non duole ! ". Quindi si prende la persona anziana e la si strappa dal suo ambiente, come quando si trapianta una piantina in un altro vaso, si raccolgono armi e bagagli e via al ricovero! Se poi lì non è curata e le condizioni di vita non sono ottimali, non interessa a nessuno: solo se il soggetto muore, poi si urla e si piange! Io dico, a che pro?

 

 

Prima parte

La mia esperienza lavorativa ultratrentennale nella cura delle dipendenze e la mia passione per le arti da sempre hanno stimolato in me la voglia di trovare linee di contatto tra questi due mondi che apparentemente appaiono distanti tra di loro. Questo è un viaggio “schizofrenico” alla ricerca di curiosità, di fatti insospettabili, di fotogrammi di vite legati ad un tempo ed uno spazio ben preciso che solo apparentemente pensavamo di conoscere a fondo. La pittura, la letteratura, la musica sono questi gli ambiti che andremo a trovare con una lente d’osservazione diversa dal solito muovendoci con assoluto rispetto ed in punta di piedi. Analizzeremo queste tre arti separatamente anche se come spesso accade nella vita le cose, specie quelle umane si toccano si fondano tra loro divenendo inseparabili, ecco che scopriremo come Eugenio Finardi prende ispirazione per la sua “Scimmia” dal libro di William Burrougs, “La scimmia sulla schiena” o come la folle arte di Andy Warhol disegnerà alcune tra le copertine dei dischi più famose della storia come quella di Sticky Fingers dei Rolling Stones o la famosa banana sexy del primo album dei Velvet Underground di Lou Reed. Quelli che ho scelto in questo articolo sono naturalmente solo una piccolissima parte dei punti che avremo potuto analizzare sull’argomento, spero servano da stimolo a solleticare la nostra curiosità perché come spesso accade nelle cose della vita non tutto è in realtà come sembra apparire.
È convinzione di molti che tra arte e droga esista un forte connubio. L’artista, secondo un luogo comune, accoglie in sé il binomio “genio e sregolatezza”. Ovviamente, ciò non significa che chiunque si occupi di arte faccia spasmodico e generalizzato uso di droghe o stupefacenti, tuttavia è risaputo che l’uso di droghe nella produzione artistica di ogni tipo, arte visiva, musica, letteratura, pittura, ecc. non è un qualcosa di insolito né irrilevante specialmente in alcuni contesti.
Secondo taluni esperti, l’assunzione di droga, nel mondo artistico, trova la sua “giustificazione” nella possibilità di trarre particolari vantaggi, seppure innaturali, quali ad esempio il potenziamento della capacità percettiva (mentale) e l’amplificazione delle capacità sensitive (sensoriali), confluendo il tutto, nel prodotto artistico.

Allentare i freni inibitori, liberare la creatività dalle trappole del razionalismo

L’uso delle droghe nel campo artistico è mutato molto spesso in base al periodo storico rincorrendo, rispondendo o rifiutando la società del momento.
Alla fine dell’‘800, in epoca romantica, la droga più diffusa tra gli artisti era l’assenzio. Di essa facevano uso, in particolare, gli artisti romantici, incompresi dalla società e oppositori dei valori borghesi, è la droga degli impressionisti, di Manet, Monet, Renoir, Degas, Gauguin, Van Gogh, Picasso ecc. Nel 1915, dopo avere assunto le caratteristiche di una vera e propria piaga sociale, l’assenzio viene proibito per legge. Negli anni ’20, invece, nella Louisiana e in particolare nella New Orleans nera, era molto diffusa la marijuana, diffusione che coincide con la nascita della musica jazz.
Come non citare negli anni 50 gli artisti dell’espressionismo astratto e poco dopo quelli della beat generation legati all’uso degli allucinogeni per arrivare a cavallo degli anni 70 /80 dove il rock, padre di tanti sottogeneri musicali, si caratterizzò con l’uso spesso devastante dell’eroina.

ARTI GRAFICHE E PITTURA

Tra le diverse correnti di pensiero, l’impressionismo, secondo taluni, è quello con il quale maggiormente è possibile riscontrare un sistematico connubio con la droga. Il movimento impressionista si sviluppò a Parigi intorno al 1860. Caratterizzato dal rifiuto dei soggetti storici e religiosi e l’interesse a cogliere gli aspetti della realtà circostante. Paesaggi naturali popolati da gente comune ritratta nella propria attività quotidiana, semplici immagini senza filtri di ciò che accadeva a Parigi in quegli anni.
Bisognava evadere dalle regole dell’arte ufficiale e dalle scuole d’arte, la prospettiva era usata in modo assai diverso. Molti pittori del tempo non lavoravano in uno studio ma all’aperto con l’intento di rappresentare la realtà così come la vedevano, cogliendone solo l’impressione generale. Non si soffermavano sui dettagli e non aggiungevano le proprie emozioni e le proprie considerazioni. Le pennellate rapide davano un senso di istantaneità, quasi fosse una foto viva, rapidi tocchi di colore, studio della luce, creavano delle vibrazioni che davano l’impressione di un movimento.
Gli artisti di questo movimento si riunivano spesso presso dei caffè, per parlare discutere e “pensare” le loro opere, era spesso qui che si consumava il rituale dell’assunzione dell’assenzio. L’assenzio è un arbusto alpino, di colore verde argentato/olivastro, usato in erboristeria per le sue proprietà toniche, antisettiche e vermifughe. L’artemisia absinthium veniva distillato spesso insieme a finocchio o melissa per lenire il suo forte sapore amaro.
Sono davvero tanti i pittori di quel periodo che hanno abusato di questa sostanza e a cui hanno dedicato una o più opere. Il rituale tutto particolare con cui si assumeva questa sostanza era così diffuso nei locali del tempo che praticamente faceva parte della vita di tutti i giorni e quindi andava immortalato nella sua naturalezza.


L’ASSENZIO DI EDGAR DEGAS
In questa opera del famoso pittore dal titolo proprio “L’assenzio” lei è una povera prostituta, abbigliata in modo pateticamente lussuoso mentre lui è un corpulento barbone parigino. I personaggi sembrano lontanissimi fra loro, con lo sguardo perso nel vuoto, annebbiato dalla moltitudine di tristi pensieri che si affollano nelle loro menti.

IL BEVITORE DI ASSENZIO
DI EDOUARD MANET

La solitudine del bevitore, allora come adesso


LA BEVITRICE D’ASSENZIO
PABLO PICASSO

 

Anche Picasso alcuni anni dopo dedicò una sua opera a questa sostanza, la sofferenza e la solitudine ritornano anche in questa immagine.


VIKTOR OLIVA, “Il bevitore di assenzio”. È uno dei quadri più emblematici, l’uomo rimasto da solo, i tavolini ormai vuoti, il solo cameriere ad attendere la chiusura, l’uomo messo davanti ai suoi fantasmi da quella sostanza che ai tempi veniva proprio chiamata la “fata verde” in quella accezione illusoria di un qualcosa di positivo come accade per ogni sostanza ai primi usi.


VINCENT VAN GOGH

 

Donna al Café Le Tambourin

 

Tavolino di caffé
con assenzio


Sembra ormai certo che Vincent abusasse dell’assenzio che agendo sulla percezione provocava in lui allucinazioni, attacchi epilettici ed un disturbo che va sotto il nome di xantopia, ovvero la ‘visione gialla’ degli oggetti, in particolare di quelli chiari. Da questo disturbo sembra derivare il fatto che negli ultimi suoi anni dipingesse le sue opere usando molto il colore giallo in tutte le sue varie sfumature.

 


Passando al ‘900 non si può non soffermarsi sul genio maledetto per antonomasia, Jackson Pollock. L’artista condusse tutta la sua vita sulla strada della autodistruzione, caratterizzata da eccessi di alcool e psicofarmaci, quella vita finita proprio in un terribile incidente d'auto a soli 44 anni mentre guidava sotto effetto dell’alcol. L’opera di Jackson Pollock fu influenzata dai Nativi americani, proprio per questo venne definito l’artista sciamano. Come i nativi usavano il cactus di San Pedro per entrare in una sorta di mondo parallelo in collegamento con spiriti ed inconscio lui usava alcol e psicofarmaci. Pollock è il più grande esponente della action painter, una modalità di creare arte particolare vivendo direttamente nel quadro stesso, dove spesso il colore viene fatto colare dall’alto in forma più liquida del normale, viene continuamente sovrapposto fino a creare un qualcosa di cromaticamente soddisfacente per l’artista.


“Quando sono dentro i miei quadri non sono pienamente consapevole di quello che sto facendo. Solo dopo un momento di "presa di coscienza" mi rendo conto di quello che ho realizzato. Non ho paura di fare cambiamenti, di rovinare l'immagine e così via, perché il dipinto vive di vita propria. Io cerco di farla uscire. “


Altro personaggio che per molti versi ci ricorda Pollock sia per la sua follia artistica che per la sua mente spesso “in viaggio” in luoghi difficilmente comprensibile è Andy Warhol. Nel loft newyorchese al quinto piano del 231 sulla 47esima Est, si consumavano sesso, droga e rock n'roll. Le vite bruciavano in quello spazio rivestito di stagnola e di vernice d'argento, tra il divano rosso raccattato per strada, i carrelli e le scale appese alle pareti, ci si poteva imbattere in drag queen, spacciatori e superstar. In quello studio conosciuto da tutti come la “Farm” si faceva a gara per essere invitati. Si camminava in coma lisergico e trance etiliche ma le sostanze psicotrope e le orge non toglievano spazio alla creatività e alla produzione di quella macchina infernale chiamata POP ART. Di qui passarono personaggi del calibro di Mick Jagger, Salvador Dalì, Allen Ginsberg e Nico, Lou Reed, Bob Dylan, Jim Morrison solo per citarne alcuni. Qui nacquero le copertine di Sticky Fingers e di The Velvet Underground & Nico sicuramente una delle copertine più irriverenti della storia rappresentata da un’iconica banana gialla che poteva essere pelata, rivelando una 'sorpresa‘.

 

Worrol muore nel 1987, è stato un personaggio controverso, la sua arte visionaria trovò la maggiore realizzazione nella pittura e nella grafica ma nella sua vita fu anche scultore, sceneggiatore, produttore televisivo e cinematografico, regista, direttore della fotografia ed attore a dimostrazione della sua incredibile versatilità.


Avvicinandosi ai giorni nostri meritano sicuramente la citazione due artisti contemporanei, Bryan Lewis Sanders e Brian Pollet conosciuto con lo pseudonimo di Pixel Pusha. Non saranno ricordati sicuramente per le loro capacità artistiche ma per la loro follia che li ha spinti a rendersi protagonisti di un singolare quanto folle esperimento. Il primo è un artista contemporaneo di Washington che ha voluto associare all’opera pittorica, fatta di autoritratti, l’assunzione di una droga o comunque di una sostanza psicotropa. In pratica Bryan ha assunto una sostanza diversa ogni volta facendo passare alcuni giorni tra una e l’altra in modo da non inquinare l’effetto e ogni volta, sotto l’effetto della sostanza, ha eseguito un autoritratto. Il risultato è stato sorprendente, la percezione di se stesso è stata completamente diversa a riprova di quanto le sostanze influiscano sulle sensazioni e sulla percezione del mondo che ci circonda. Ha usato ogni sorta di sostanza, oltre venti, dalla cocaina all’eroina, dalle anfetamine al metadone, dalla cannabis agli ansiolitici, dagli allucinogeni ai funghi, dallo xanax agli antidepressivi.
Pixel Pusha si è sottoposto ad un esperimento molto simile, spingendosi, se fosse possibile, anche oltre. Il Graphic designer di San Francisco, infatti, ha usato una sostanza diversa al giorno per venti giorni di seguito mettendosi poi a creare al suo pc.

 

 

 

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