Il flop di "Italia Plurale" non è un caso: quando la politica diventa strumento di divisione, le comunità rispondono con chiarezza
di Monica Vendrame
Le elezioni di Monfalcone hanno consegnato alla storia un messaggio netto, destinato a far discutere ben oltre i confini del Friuli Venezia Giulia. Mentre il centrodestra celebra un trionfo plebiscitario (70% dei voti), la lista “Italia Plurale”, prima formazione esplicitamente islamica a sfidare le urne in Italia, viene relegata ai margini con un risicato 2,9%. Un dato che non si limita a descrivere una sconfitta elettorale, ma suona come un monito: in Occidente, le candidature basate sull’identità religiosa — specie se legate a un Islam non sempre compatibile con i valori laici — rischiano di essere percepite non come atti di integrazione, ma come provocazioni.
“Italia Plurale” si presentava come un esperimento di rappresentanza: dare voce a una comunità musulmana che a Monfalcone conta migliaia di persone, molte di origine bangladese. Peccato che, nella pratica, la lista abbia replicato gli errori di certa politica identitaria: ha trasformato la religione in una bandiera, ignorando che in democrazia si vincono le elezioni con programmi concreti, non con proclami simbolici. Il risultato? Un fiasco che dimostra due cose:
Le comunità immigrate non vogliono essere ghettizzate. La stragrande maggioranza dei musulmani a Monfalcone non ha sostenuto la lista, segnale che l’appartenenza religiosa non basta per costruire consenso.
L’elettorato italiano rifiuta logiche importate da altri contesti. In Paesi come il Belgio o la Francia, partiti islamici cavalcano il malcontento delle periferie, ma in Italia — dove la presenza musulmana è più recente — questo modello non attecchisce.
La verità è che parlare di “islamizzazione” non è un’isteria da destra, come vorrebbero alcuni progressisti, ma una preoccupazione fondata. Anna Maria Cisint, ex sindaca leghista oggi al Parlamento Europeo, lo ha vissuto in prima persona: minacce di morte, moschee abusive spacciate per centri culturali, ragazze salvate da matrimoni forzati. Quando la legge viene sistematicamente violata in nome della libertà religiosa, è dovere delle istituzioni intervenire.
Uno dei cavalli di battaglia di Cisint è stata la chiusura dei centri islamici illegali, confermata dal Consiglio di Stato. Un tema cruciale: perché in Europa si accetta che luoghi di culto operino al di fuori delle regole? Se una pescheria diventa una moschea senza autorizzazioni, se imam non riconosciuti predicano in lingue sconosciute alle autorità, se i sermoni fomentano odio verso i “miscredenti”, non stiamo parlando di integrazione, ma di apartheid strisciante.
La Lega ha colto la frustrazione di chi, a Monfalcone, si sente invaso da una cultura parallela. Elettori che non sono necessariamente razzisti, ma che chiedono rispetto: se migri in un Paese, devi aderire alle sue leggi, non imporre le tue. Pretendere liste politiche islamiche — con candidati che in alcuni casi rifiutano di stringere la mano alle donne o che difendono la poligamia — non è progressismo: è miopia pericolosa.
C’è chi accusa il centrodestra di aver trasformato le elezioni in uno “scontro di civiltà”. Ma la realtà è che la sinistra, cavalcando un multiculturalismo acritico, ha perso il contatto con la gente. Mentre i salotti buoni discettano sui diritti delle minoranze, i cittadini chiedono risposte su sicurezza, lavoro e servizi. A Monfalcone, il centrosinistra ha provato a contrapporre ai toni duri della Lega un generico appello alla “tolleranza”, ottenendo un misero 26%. Segno che, quando si tratta di identità, gli italiani non amano i moralismi: vogliono confini chiari, fisici e culturali.
Il modello delle liste etnico-religiose, del resto, ha fallito ovunque. In Svezia, i partiti islamici hanno alimentato tensioni invece di risolverle; in Germania, progetti simili sono nati morti. L’Italia, con la sua storia di cattolicesimo e laicità, non è terreno fertile per esperimenti del genere. L’integrazione passa attraverso scuole, lavoro, rispetto delle regole — non attraverso enclavi politiche che cristallizzano le differenze.
Il flop di “Italia Plurale” dovrebbe far riflettere chi sogna un’Italia “colorata” e frammentata in comunità incommunicanti. Ogni volta che si legittimano candidature basate sulla religione, si regala carburante alla retorica sovranista. La Lega, a Monfalcone, non ha vinto solo grazie alle opere pubbliche: ha vinto perché ha difeso un’idea di società coesa, dove l’identità italiana non è negoziabile.
Questo non significa discriminare chi professa l’islam, ma pretendere che tutti — senza eccezioni — si adeguino ai nostri codici. Se domani nascessero liste cristiane, ebraiche o buddiste, la risposta dovrebbe essere la stessa: la politica non è un pulpito. Monfalcone ha scritto una pagina importante: quella di una comunità che, pur nella complessità, ha scelto di non abdicare alla sua storia. Un esempio da non dimenticare.