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di Luisa Di Francesco

È una domenica qualunque, di un mese qualunque. L’unica diversità è che oggi fa più caldo, qui nel nostro Sud, a Meridione; le finestre sono aperte sulla strada, così stretta che, delle persone che abitano nella palazzina di fronte, sai tutto.

In questa piccola strada di questo piccolo quartiere della mia città tutti si conoscono da anni. C’è, ad esempio, il signore che, ogni pomeriggio con altri condomini del suo palazzo, fa crocchio per ore a chiacchierare proprio lì all’angolo dove il pescatore montava ogni mattina il suo banchetto abusivo e apriva, davanti a chi passava, le cozze nere, nate caparbie nelle acque del Mar Piccolo.

Le cozze piccole e strette allevate all’ombra del fondo del mare, sui pali di legno conficcati, cresciute tra le correnti di acqua dolce che formano rivi dalla diversa direzione.  Il venditore all’angolo pescava nel secchio, nel liquido torbido la forma lucida oblunga e bitorzoluta di minuscoli ospiti sul dorso; una piccola pressione tra le dita: la lama del coltello, dove il guscio è più largo, apriva la vulva in due metà; rapido staccava il mollusco che gocciolava il sapore invitante: roseo sui bordi, morbido e turgido al centro. Molti le mangiavano così, all’angolo della strada, in piedi, all’ombra del sole: “Spacche e mange”, diciamo noi: “Apri e mangia”, appunto!

Passavo spesso vicino al banchetto del pescatore e a fianco al crocchio di amici che, puntualmente, mi salutavano sorridendo, nel mio frettoloso passaggio mentre andavo a scuola o quando ritornavo il pomeriggio da qualche impegno collegiale. Trascorrevano la maggior parte del loro tempo di pensionati a discutere, anche vivacemente, di argomenti diversi. A volte sentivo la voce di qualcuno di loro che si alzava in tono irato durante una discussione, nata, forse, per una differente convinzione politica che accendeva gli animi.

Sono stata a lungo “la nuova”, la signora arrivata da poco nel quartiere, quando io e la mia famiglia ci siamo trasferiti nella piccola strada, all’ultimo piano della palazzina situata proprio al centro di questo microcosmo.

 Con la pandemia, il crocchio e il banchetto sono scomparsi come le voci dei signori all’angolo. Attraverso i vetri, dai balconi abbiamo imparato i rapporti tra dirimpettai: abbiamo cominciato a salutarci con la signora che vive di fronte allo stesso mio piano, quando ci incontriamo per stendere il bucato; con la famiglia del quarto che ha una bambina di giovane età, due camere e una minuscola cucina affacciate tutte dallo stesso lato; d’estate il sole batte su quelle finestre dal mattino fino al tramonto, senza alcuna possibilità di barriera all’afa. Abbiamo imparato a riconoscere i rumori che identificano “il vivere nascosto in una boccia” di ogni nucleo familiare.

Così, stamattina, il signore che abita all’ultimo piano della palazzina, il signore di cui ignoro il nome e il cognome ma che ho salutato per anni all’angolo della strada vicino al banchetto improvvisato, stamane, appena mi ha visto uscire per innaffiare le piantine, dalla sua finestra mi ha rivolto un cenno sollevando il braccio, poi ha unito le due mani in un pugno, in un gesto come a dire: “Forza!”

Ho traghettato me stessa fino all’angolo estremo del terrazzo, sporgendomi dalla ringhiera per riuscire a sentire la sua voce.

Nella strada, comunque deserta, nonostante la giornata stupenda di sole e il colore “arancione-pandemia”, in questa stradina in cui vivono soprattutto persone anziane, gli ho chiesto come stava, alzando la voce. E lui mi ha risposto dicendomi un po' a parole - data la distanza- e un po’ con i gesti che alla 9,00 aveva dovuto chiamare il 118 d’urgenza: la moglie stava male. L’avevano portata via in ambulanza.

Mi ha fatto capire che aveva la febbre e che non aveva potuto fare altro per lei.

Ha gridato: “Non mi fanno entrare in ospedale, non può andare nessuno! Solo per telefono!”.

Il disperato attendere per ore che qualcuno risponda e dia notizie su chi è stato ricoverato. Lo conosciamo tutti: abbiamo ascoltato più volte il racconto dei familiari in trasmissioni televisive o degli amici che hanno vissuto un genitore, una madre, un padre, un marito, una moglie…portati via e mai più rivisti.

Non ho avuto la forza di gridare per sapere il perché, non ce l’ho fatta a domandare se il ricovero della moglie fosse legato al covid. Mi sono sentita inerme, incapace di offrire supporto e sostegno. So che i figli di quel signore vivono lontano. Ho stretto le due mani a pugno ripetendo il gesto fatto da lui e gli ho mandato un bacio nell’aria di sole del mattino, senza vergognarmi, con assoluta sincerità.

Poco fa, era l’imbrunire, sono uscita sul terrazzo; ho guardato la finestra: era aperta ma dentro non ho scorto alcuna luce.

Lo immagino da solo, fra le stanze vuote, al di là di questa strada, in questa domenica che preannuncia l’estate, in questo pomeriggio, in questa sera di maggio di pandemia e di dolore.

Taranto, 02/05/2021

 Autore: Luisa Di Francesco

 

 

 

 

 

 

 

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Info Autore
LUISA DI FRANCESCO
Author: LUISA DI FRANCESCO
Biografia:
.Nata a Taranto, si è laureata presso l’Università agli Studi di Bari, in Pedagogia Facoltà di Magistero con 110 e lode. È docente dal 1983 e attualmente insegna Materie letterarie in un Istituto professionale della sua città. È socio onorario dell’A.S.A.S. “Associazione Siciliana Arte e Scienza di Messina” e dell’Associazione culturale “Focus” di Taranto. Ha manifestato, sin da piccola, uno spiccato interesse per la lettura: dai testi di narrativa per ragazzi ai grandi Autori del panorama letterario italiano ed europeo dell’Ottocento e Novecento. Amante della letteratura, della poesia e dell’arte in tutte le sue forme, scrive racconti e testi poetici affidando al “segno” i moti del suo animo. Ha pubblicato due raccolte poetiche: “Grammi di vero”, VJ Edizioni, Milano,dicembre 2020 e “Il vaso di Pandora”, Pegasus Edition, febbraio 2021. Ha partecipato a diversi concorsi letterari nazionali ed internazionali ricevendo premi, menzioni e riconoscimenti.Numerose sue poesie e racconti sono stati inclusi in antologie dedicate.
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