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di Paolo Russo

"Il green pass è una misura con cui gli italiani possono continuare ad esercitare le proprie attività, a divertirsi, ad andare al ristorante, a partecipare a spettacoli all'aperto e al chiuso con la garanzia però di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose..." così Mario Draghi, Presidente del Consiglio, disse il 22 luglio 2021 in conferenza stampa.

Apparve subito ai più un discorso di buon senso o perlomeno un ragionamento che poteva in qualche modo giustificare misure coatte che hanno portato a una spaccatura della società dividendola letteralmente in due: da un lato gli ossequiosi del buon senso del governo e dall'altro i critici che prima di iniettarsi un farmaco sperimentale volevano capirci qualcosa.

I primi sono stati premiati da spazi di libertà ai secondi invece è stato levato in qualche caso tutto. Dal lavoro, agli asili, ai cari nelle case di riposo perfino la possibilità di accedere in banca o in posta. Gli ospedali sono stati privati di personale sanitario punendo indirettamente quelli con il green pass e facendo ricadere la responsabilità del disservizio totalmente sui non vaccinati.  Famose sono le parole di Enrico Letta che ebbe il coraggio di dire che il vaccino è libertà rinforzando una idea politica discriminatoria e per certi versi fanatica.

Oggi sappiamo che il green pass non aveva senso, è stata una misura atta a aumentare le vaccinazioni e pertanto gli incassi lauti delle case farmaceutiche. Non siamo noi della voce agli italiani ad affermare ciò ma Janine Small, responsabile per i mercati internazionali della Pfizer, durante una audizione del 10 ottobre al Parlamento europeo.

Alla domanda dell'europarlamentare Ross: "Il vaccino Pfizer è stato testato per fermare la trasmissione del virus prima che fosse immesso sul mercato?" La  dirigente di Pfizer ha risposto tranquillamente con un no!

 

 

 

di Giovanni Macrì

 

È solo per un mero miracolo che il neonato trovato in un sacchetto di plastica nei campi di Paceco, in provincia di Trapani, abbandonato in una stradina sterrata nei pressi della scuola elementare, stia bene.

A sentire il suo vagito alle 17,30 di martedì è stata una coppia di anziani, proprietari di un appezzamento di terreno in contrada Sciarrotta, che prontamente hanno allertato le autorità.

Era per terra, avvolto in una copertina rosa e verde, dentro un sacchetto di plastica dove c’era anche la placenta. Il sacchetto non era chiuso, ma la zona in cui è stato trovato è isolata e il piccolo non si sarebbe salvato, sarebbero intervenuti il freddo della notte e il rischio per i tanti animali della zona.

Sul volto e sulle gambe i segni delle scottature del sole. Era stato abbandonato a poche ore dalla nascita, come rivela la ferita ancora aperta del cordone ombelicale.

E grazie alla sua voglia di vivere, esplosa in un pianto disperato, che si è salvato, richiamando l’attenzione della coppia che aveva deciso di fare un salto non programmato nella casa di campagna.

Lo scenario ricorda tanto il ritrovamento di un altro neonato abbandonato sempre a poche ore dal parto in una cesta dietro un muretto in via Rametta a Catania il 28 maggio di quest’anno.

È stato chiamato Francesco Alberto, perché trovato nel giorno in cui si celebra il santo patrono d’Italia e porta anche il nome del vice-brigadiere dei carabinieri che ha scortato l’ambulanza sulla quale il neonato è arrivato al Pronto soccorso.

Da qui, poi, veniva trasferito al reparto della Terapia intensiva neonatale dell’ospedale Sant’Antonio Abate di Trapani.

La primaria, la dottoressa Simona La Placa, dichiara: “Il piccolo, 3 chili per 50 centimetri d’altezza, sta bene ed è bellissimo. Ha solo qualche eritema ed è un po' disidratato a causa dell'esposizione solare. Non sta fermo un attimo e succhia il latte dal biberon con grande energia" – seguitando – “Al momento il tribunale dei minori lo ha affidato alla direzione sanitaria, ma sono già scattate le procedure per l’affidamento. Il piccolo ha bisogno di stare in famiglia e di qualcuno che si prenda cura di lui a tempo pieno. È un miracolo. Un bimbo così piccolo non avrebbe potuto superare la notte da solo in aperta campagna!”.

Poi si lascia andare a un commento peraltro condivisibile: “Chi porta avanti una gravidanza indesiderata deve sapere che c'è la possibilità di partorire in ospedale in assoluto anonimato, senza ricorrere alla clandestinità e rischiare la vita. La madre può anche non vedere mai il bambino e lasciarlo senza incorrere nel reato di abbandono di minore”.

Anche il vice brigadiere Alberto Marino  commenta a tal uopo: “Non voglio giudicare nessuno perché non so quale storia ci sia dietro, certo di questi tempi ci sono mille modi per vivere una maternità non voluta, modi che non mettano a rischio la vita del bambino, vivo per miracolo!” – proseguendo con un sorriso – “È bellissimo ed è forte, spero che viva circondato da tutto l’amore che merita e faccia il carabiniere!”.

Infatti, perché non affidarlo, in pieno anonimato, in una Chiesa o presso una struttura idonea?

Fino al 1923 esisteva la “ruota degli esposti”. Attraverso uno sportello, era possibile collocare gli esposti, cioè i neonati abbandonati, senza essere visti dall'interno e con la certezza che qualcuno se ne prendesse cura. Da qualche anno in alcune città si è ripreso a metterle in funzione, presso una struttura ospedaliera. Una culla riscaldata che si affaccia all’esterno dell’ospedale dove si può lasciare un neonato, anche qui, senza essere visti. Quindi perché… la strada o la campagna come fosse un rifiuto? Ignoranza, paura, disagio… chissà quali problematiche si dovrebbero star qui ad analizzare. Fatto sta che il piccolo Francesco Alberto oggi sta bene!

Sono in corso, da parte dei militari, accertamenti per identificare chi lo abbia abbandonato. Saranno d'aiuto le immagini estrapolate dalle telecamere di videosorveglianza che si trovano in zona, vicino a una scuola elementare. Sotto sequestro è finita la coperta, unico effetto personale del neonato.

Intanto la madre, quando le autorità arriveranno a lei, oggi non sarebbe accusata solo di abbandono di minore (art. 591 del Codice Penale), ma ben più gravemente di… tentato infanticidio.

Tutta la Redazione augura al piccolo Francesco Alberto ogni bene. Sicuramente riempirà di gioia ogni giorno della vita della famiglia che riuscirà ad averne l’affido.

 

foto Web

 

 

 

di Giovanni Macrì

Nessuno poteva immaginare che quel giorno, un giorno come tanti altri, sarebbe stato per due famiglie l’inizio di un golgota. La signora delle tenebre stava in agguato per portare con sé... due eroi.

Anche se chi fa il mestiere del Carabiniere,  sa bene che ogni giorno è sempre costretto a salire sul ring e cercare di schivare i colpi che gli avversari, infidi e malvagi, agendo nell’ombra, possono tirargli contro.

Ma mentre i malviventi agiscono nella piena e immorale illegalità, loro, i Carabinieri, in presenza di Dio, hanno giurato di far rispettare la legge, di essere fedeli alla Repubblica italiana, di osservarne la Costituzione e le leggi e di adempiere con disciplina e onore tutti i doveri dello Stato per la difesa della Patria e la salvaguardia delle libere istituzioni.

Con queste parole scolpite nel cuore e nella mente i due Carabinieri: Claudio Pezzuto e Fortunato Arena, 29 e 23 e anni, anche quel giorno erano usciti di pattuglia, sulla loro auto di servizio, una “Fiat uno”, per accingersi a espletare il loro compito di vigilanza e protezione nei confronti dell’onesta società.

Poi, mentre stavano rientrando verso la loro caserma, la stazione di Faiano di Pontecagnano (SA), dopo una serie di controlli di routine, qualcosa però nella centrale piazza Garibaldi li aveva insospettiti.

Tra i ragazzi del passeggio serale e i negozi che stavano per chiudere, vedevano fermo un fuoristrada: un grande Nissan Patrol bianco targato Firenze. A bordo ci sono due persone, tre secondo altre testimonianze.

Poco lontano un altro giovane sta telefonando in una cabina. Forse un basista! In aria veleggerà la convita opinione che la Jeep fosse un’apripista per un possibile “summit politico-mafioso” che sarebbe stato in essere da lì a poco.

Mentre l’Arena restava in auto, l’altro carabiniere, Claudio Pezzuto, scendeva e si avvicinava alla jeep per un normale controllo. Salutava il guidatore portando la sua mano destra alla visiera e contestualmente chiedeva i documenti.

L’uomo, pur con qualche remora consegnava la patente. Pezzuto tornava quindi alla Fiat Uno di servizio e la passava al collega per controllare i dati via radio.

Ed è di quell’attimo che gli assassini approfittavano delle spalle voltate del militare. Quello seduto accanto al posto del guidatore scendeva e tirava fuori un mitra calibro nove. L’Arena,  rendendosi conto di ciò che da lì a poco sarebbe potuto succedere, senza indugio attraverso il finestrino dell’autovettura, pistola in pugno, attingeva in direzione di questi per dar manforte al collega. Inutilmente! La prima raffica lo falciava facendolo accasciare all’interno della stessa auto di servizio. Anche l’altro dei malviventi apriva il fuoco dal fuoristrada.

Si scatenava un vero inferno nella frazione di un attimo! Nel giro di pochi secondi nella piazza, tra gli ignari passanti, esplodeva insomma una furia omicida senza tregua o pietà.

Adesso era lo stesso Pezzuto a essere nel mirino dei suoi carnefici. Il militare riusciva a estrarre la sua pistola d’ordinanza, sparare alcuni proiettili, ma gli assassini erano più precisi. Pezzuto, ferito a un fianco e impossibilitato a continuare a fare fuoco, cercava allora di mettersi in salvo rifugiandosi nel porticato di un negozio, non prima di aver gridato, con tutta la voce che aveva dentro, alla gente presente nell’affollata piazza di mettersi al sicuro ed evitare così il loro coinvolgimento nella sparatoria. Anche se ai primi spari c’era stato già un immediato fuggi fuggi.

Lo spietato malvivente con uno sguardo impietoso e feroce lo inseguiva finendolo con un’ultima e definitiva sventagliata di mitra.

I banditi, per nulla toccati da quell’indicibile bagno di sangue, tornavano speditamente al loro Nissan Patrol per quindi fuggire a tutta velocità.

Poco dopo, arrivano sul posto i vigili urbani. Il loro comando era, infatti, proprio a pochi metri di distanza dalla piazza. Per terra ci sono decine e decine di bossoli, ma i due carabinieri erano ancora vivi.

Vicino Fortunato Arena v’era ancora la patente, che risulterà falsa, di uno degli assassini.

I due militari giacevano a terra tra il mormorio animato della gente della piazza che cercava, finita la battaglia, di curiosare in quel massacro di sangue, cosa fosse effettivamente successo.

In lontananza si sentiva la sirena, il cui fragore si faceva sempre più intenso man mano che si avvicinava, dell’ambulanza fatta intervenire dalla stessa centrale operativa di Battipaglia che aveva seguito, inerme, tutta la strage in diretta. Era rimasta collegata con l’Arena per il controllo del documento. Avevano, impotenti, sentito tutto: gli spari, le urla di dolore, le grida concitate... poi, dopo la mattanza, il silenzio.

I due militari agonizzanti venivano caricati sul mezzo di soccorso appena sopraggiunto, ma quando arrivano all’ospedale San Leonardo di Salerno erano già morti.

Scattava immediatamente la caccia al Nissan Patrol

Il veicolo veniva recuperato a pochi chilometri da Pontecagnano. A bordo c’era ancora uno dei mitra usati.

I carabinieri scovavano e interrogavano senza sosta anche Massimo Cavallaro, in merito al duplice omicidio, perché proprietario del fuoristrada incriminato. Risulterà estraneo ai fatti. Il veicolo gli era stato rubato e lui era a bordo in stato di sequestro.

Intanto in caserma c’è tanta rabbia, sconforto e tanto dolore. Claudio Pezzuto, originario di Surbo (Lecce), lasciava la moglie e un figlio di due anni. Fortunato Arena invece veniva da San Filippo del Mela (Messina), era sposato da soli sette mesi e la moglie era incinta (perderà il bambino per il forte dolore).

I due vili e spietati assassini, Carmine De Feo e Carmine D’Alessio 30 e 27 anni appartenenti all’Associazione Camorristica Riformata, gruppo camorristico nato dalle ceneri della Nuova camorra organizzata di Cutolo, resteranno in fuga per ben 152 giorni, braccati da tutte le forze dell’ordine. Ma braccati anche dai nemici della Nuova famiglia, da clan rivali, per far sì che si allentasse la morsa che in quei giorni si era scatenata su tutte le loro zone di sporchi affari.

Si scoprirà dopo che i due malviventi erano partiti quella stessa mattina del 12 febbraio da Capaccio Scalo(SA) dopo aver rapinato nella Piana del Sele una Ritmo ad un carabiniere, Elia Sansone, portandogli via anche la pistola d’ordinanza. Percorsi pochi minuti si erano impossessati prima di una “Fiat Uno” bianca, poi di un Nissan Patrol, costringendo il proprietario a restare a bordo. Giungendo in serata nella piazza di Faiano.

Quello di Faiano fu un eccidio che sconvolse non solo la provincia di Salerno, ma l’Italia tutta.

“Agghiacciante e interessante” fu la ricostruzione che un poliziotto, Giorgio Rossomando, successivamente rinviato a giudizio per favoreggiamento, abbia aiutato la fuga dei due. Indizi e poi, una soffiata dettagliatissima hanno indotto gli inquirenti a credere che l’agente fosse in collegamento con esponenti del clan De Feo. Qualche controllo e quindi il blitz a Pratole San Vito di Bellizzi, venti chilometri da Salerno, nei pressi dell’abitazione di questi. Ma i due criminali avevano già lasciato l’improvvisato nascondiglio.

La fuga di D’Alessio e De Feo: Carmine il mancino e Carmine il tossico, terminava all’alba del 14 luglio del ’92. I killer furono bloccati dai carabinieri a Calvanico, nella Valle dell’Irno (SA), in uno dei tanti appartamenti affittati agli studenti o ai pendolari. Si arresero solo dopo l’arrivo del Pm Alfredo Greco, il magistrato che coordinò le indagini, fino, appunto, alla cattura dei due latitanti.

I due spietati assassini vennero condannati all’ergastolo e la pena fu confermata anche in Cassazione.

Carmine D’Alessio nel 2008 moriva nella casa dei suoi genitori a Battipaglia. Aveva lasciato il carcere di Belluno perché gravemente ammalato di cancro ai polmoni.

Questa la motivazione per l’assegnazione della Medaglia d’oro al valore militare alla memoria:“Durante il controllo del conducente di un'autovettura in pieno centro abitato, investito da fulminea azione di fuoco da parte di un malvivente nascosto nell'abitacolo, benché ferito ad un braccio e impossibilitato a far uso dell'arma, incurante del grave rischio personale cui si esponeva, con mirabile generosità - prima di accasciarsi al suolo colpito a morte - si adoperava per far allontanare gli astanti e sottrarli al contemporaneo fuoco di altro complice. I malviventi, identificati in due pericolosi latitanti affiliati a spietata associazione criminale, venivano poi catturati e condannati all'ergastolo. Chiaro esempio di elette virtù militari e di altissimo senso del dovere spinti fino al supremo sacrificio.”

 

Ai due militari in loro memoria, nel 2014, è stata intitolata la caserma sede del Comando Provinciale e della Stazione Carabinieri di Salerno Mercatello di via Mauri a Salerno, mentre nel giugno 2021 una strada adiacente.

Tania Pisani, vedova del Carabinierie M.O.V.M. Pezzuto, impegnata assiduamente nel sociale dichiara in occasione del trentennale: “Finchè avrò voce, racconterò la storia del mio Claudio, perché lui credeva in quello che faceva ed è morto perchè con grande scrupolo affrontava ogni aspetto del suo lavoro. E’ un esempio che ho il dovere di portare ai giovani, perché riflettano, perchè decidano da che parte stare. Solo in questo modo la morte di mio marito non sarà stata vana”.

Dei due militari eroi resterà imperituro il ricordo. Una ferita sempre aperta come quella lasciata da tutti i nostri eroi morti nell’esercizio delle loro funzioni a tutela degli onesti cittadini.

 

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