di Carmensita Furlano
“Dunque l’uomo — l’umanità — è per sua natura buono o cattivo?
E, se è buono, che cosa lo rende cattivo?
Oppure, se è malvagio, che cosa lo può redimere?
Forse la cultura, cioè l’educazione?
O la bellezza (per esempio l’arte, per esempio la musica)?
Oppure la legge (quella dell’uomo, ma anche quella di Dio)?”
Spesso mi chiedo se l'uomo sia veramente un “animale sociale”, come hanno affermato molti filosofi, oppure se la socialità non sia uno degli attributi che qualificano propriamente l'essere umano.
A prima vista verrebbe spontaneo affermare che l'uomo sia fatto per vivere in comune con i suoi simili e che l'istinto alla socialità sia innato; ma, a ben guardare, ciò non è affatto dimostrato.
Io credo piuttosto che abbia almeno in parte ragione il filosofo Hobbes, che affermava il concetto dell'"Homo hominis lupus" (l'uomo è lupo all'uomo ); ogni individuo tende prima di tutto ad affermare se stesso, se possibile anche a danno degli altri e la riunione in società avviene soltanto quando ci si rende conto che associandosi si risolvono meglio problemi comuni, a cui da soli è difficile far fronte.
La società nasce sulle basi di un contratto non scritto, in cui tutte le parti rinunciano loro malgrado ad una libertà illimitata per far fronte ad esigenze comuni.
Al di là di questo, direi che sono innumerevoli gli esempi di antisocialità, conflittualità e prepotenza dell'uomo; si può dire che siamo l'unica specie in natura che pratica la guerra e che è in grado persino di autodistruggersi....
Eppure, nonostante questi aspetti negativi, è vero che esiste anche un impulso solidaristico, che porta le persone ad aiutarsi reciprocamente a volte persino in modo eroico; la natura umana è insomma incline all'eccesso, sia nel bene che nel male. La società è nata per un puro e freddo calcolo della ragione? Oppure l'uomo, nonostante spesso sia cattivo, è comunque un “essere sociale”, portato istintivamente a stabilire stretti legami con gli altri?
Bene e male, altruismo ed egoismo appartengono entrambi all’esperienza dell’uomo (di ogni uomo). Le ragioni di questa ambivalenza, che provoca uno stato di lacerazione interiore, sono diverse. La teologia cristiana, che aveva in partenza una visione positiva dell’uomo —nell’Eden egli vive in perfetta armonia con Dio, con gli altri e con il mondo — ha fatto appello, per spiegare la genesi del male morale, al racconto mitologico del «peccato originale», una misteriosa caduta, dalla quale discende la situazione di squilibrio in cui l’umanità versa. Il male, che precede di per sé la comparsa dell’uomo — basti ricordare qui la violenza presente nel mondo animale — si consolida e si dilata in conseguenza dei peccati degli uomini. La storia del genere umano è costellata di episodi drammatici di violenza e di morte. Il male assume — è questa la lettura che ne fa san Paolo — una dimensione cosmica; è dentro all’uomo (ha la sua sede nel cuore malvagio), ma è anche fuori di lui, permeando di sé le strutture nelle quali si svolge la convivenza umana.
Probabilmente non siamo inclini naturalmente al male. Sebbene siamo circondati da efferatezze, crimini, malvagità di cui si cerca invano un movente. È come se andassimo inoltrandoci nel mondo inquietante descritto da Dostoevskij. Ma che cos’è il male, protagonista quasi incontrastato del pensiero occidentale? E perché gli esseri umani lo scelgono? Perché, se sono dotati di libero arbitrio, non preferiscono il bene? In questa alternativa si dispiega, com’è noto, l’etica. Le risposte sono diverse: se Socrate fa del male l’esito dell’ignoranza, Aristotele lo scorge lì dove manca un limite e una misura, se Tommaso lo imputa a una volontà non accompagnata da ragione, Hegel lo situa nel trionfo del singolo.
Tante definizioni — una sola conferma: il male sfugge a ogni presa. Forse per questo assurge a forza sovrastante, negativa e demonica. Ha visto giusto Spinoza: male e bene non hanno realtà autonoma. Proprio qui sta l’errore, nel credere che bene e male siano entità a sé, quasi personificate. Non è così. E si può aggiungere che bene e male non sono concetti metafisici; stanno solo, concretamente, nelle nostre azioni e nei nostri modi di pensare. Questo significa che tutto è consegnato al libero arbitrio? Siamo liberi di scegliere? Certo che no. Chi può ancora andare dietro a questa illusione illuministica? Siamo liberi, sì, ma di reagire, o meglio, di rispondere, assumendoci le nostre responsabilità. E la prima risposta sta nell’impegno a esistere, nel dire sì alla nostra forma di vita, senza elucubrazioni tragiche sul fato. Vivere vuol dire godere della vita; ma il godimento, che tende all’ingenuità del possesso, rischia di esasperarsi, e si volge in sofferenza non appena ciò che si desidera scompare. Il male è in agguato. Si brandisce allora l’arma della violenza, e si può uccidere. Il male comincia con la disattenzione — quella con cui passiamo per la porta davanti agli altri. Il male è dove, nel brusio dell’esistenza, non si ascolta la voce dell’altro.
A tal proposito mi piace ricordare la favola di Esopo della rana e dello scorpione:
“Uno scorpione doveva attraversare un fiume, ma non sapendo nuotare,
chiese aiuto ad una rana che si trovava lì accanto.
Così, con voce dolce e suadente, le disse:
"Per favore, fammi salire sulla tua schiena e portami sull'altra sponda."
La rana gli rispose "Fossi matta! Così appena siamo in acqua mi pungi e mi uccidi!"
"E per quale motivo dovrei farlo?" incalzò lo scorpione "Se ti pungessi, tu moriresti ed io, non sapendo nuotare, annegherei!"
La rana stette un attimo a pensare, e convintasi della sensatezza dell'obiezione dello scorpione, lo caricò sul dorso e insieme entrarono in acqua.
A metà tragitto la rana sentì un dolore intenso provenire dalla schiena, e capì di essere stata punta dallo scorpione.
Mentre entrambi stavano per morire la rana chiese all'insano ospite il perché del folle gesto.
"Perché sono uno scorpione…" rispose lui "È la mia natura!"
Nonostante lo scorpione sia consapevole che pungendo la rana annegherà anche lui, non riesce a trattenersi quando la "vocina" interna gli dice che lui è un animale che punge gli altri per sua stessa natura.
Nella specie umana si verifica un fenomeno che non ha eguali in natura. Due individui maschi della stessa specie, con lo stesso corpo da mammiferi bipedi di grossa taglia, con lo stesso tipo di cervello, possono diventare uno san Francesco d’Assisi e l’altro Adolf Hitler. Come possiamo spiegare una tanto radicale differenza di comportamenti? In due modi, che non si escludono a vicenda.
La prima ipotesi è che in Homo sapiens gli istinti abbiano perso gran parte della loro cogenza: non ci comandano più come burattini. A parità di biologia, le scelte che un individuo fa sono dettate molto più dalla storia personale, dalle esperienze e dai traumi vissuti, dalle influenze familiari e sociali, o semplicemente dalle unicità del singolo. La nostra eredità evolutiva si è indebolita: ci rende capaci di un comportamento e del suo opposto, ma poi quale dei due scegliamo dipende da un giudizio culturale su che cosa pensiamo sia bene o male.
La seconda ipotesi è che la nostra stessa storia evolutiva sia ambivalente e che dunque sia inutile chiedersi se siamo buoni o cattivi «per natura». Forse siamo entrambe le cose, un impasto variabile di bene e di male. I dati scientifici recenti confermano che la nostra mente si è evoluta affrontando relazioni sociali in piccoli gruppi, ciascuno in conflitto con altri gruppi. Il risultato è che siamo cooperativi e buoni con chi riconosciamo appartenente al nostro «noi», mentre tendiamo all’aggressività verso chi ci sembra un «altro da noi». Ma gli esperimenti dicono anche che l’educazione può fare la differenza, insegnandoci a considerare comunità sempre più ampie di solidarietà, fino a includere nel «noi» l’intera specie umana, come dice la disattesa Dichiarazione universale dei diritti del 1948.
Riconoscere quanto si è “cattivi” rende più capaci di vivere con serenità. I “cattivi” sono coloro che giungono senza vera sofferenza e una domanda di cura. Persone che sembrano (o sono) insensibili alla sofferenza che provocano nell’altro. Viene richiesto di curarle per trovare una giustificazione medica a comportamenti che non necessitano di giustificazione. Comportamenti volti al soddisfacimento pulsionale dell’individuo senza attenzione alle persone a cui procurano sofferenza. Questa è una cattiveria inemendabile clinicamente perché non appartiene a una vera definizione di malattia. Questa è una cattiveria spaventosa.
Ricordiamo la favola di Esopo, il Lupo e l’Agnello?
Un lupo vide un agnello vicino a un torrente che beveva,
e gli venne voglia di mangiarselo con qualche bel pretesto.
Standosene là a monte, cominciò quindi ad accusarlo
di sporcare l'acqua, così che egli non poteva bere.
L'agnello gli fece notare che, per bere, sfiorava appena l'acqua
e che, d'altra parte, stando a valle non gli era possibile
intorbidire la corrente a monte.
Venutogli meno quel pretesto, il lupo allora gli disse:
“Ma tu sei quello che l'anno scorso ha insultato mio padre !”
E l'agnello a spiegargli che a quella data non era ancora nato.
“Bene” concluse il lupo, “ se tu sei così bravo a trovare
delle scuse, io non posso mica rinunciare a mangiarti.”
La favola mostra che contro chi ha deciso di fare un torto non c'è giusta difesa che valga. L’essere umano quando ha in mente di ottenere un vantaggio usando la forza inventa pretesti, e non è possibile farlo desistere con argomenti giusti e fondati.
Spinoza nella sua Etica crede che l’uomo dovrebbe essere un Dio per l’uomo, ma questo ha senso solo se gli esseri umani si lasciano guidare dalla ragione, mentre “essi sono fatti in modo tale che per lo più sono invidiosi e a vicenda molesti”. Per esempio, cadono vittima della vanagloria alimentata dall’opinione del “volgo”, quello che i demagoghi del nostro tempo amano chiamare “masse popolari”. Dal cercare di compiacerle “nasce una grande voglia di opprimersi a vicenda in qualunque modo”; magari solo per un pugno di voti! Questa fragilità della politica è lo sfondo su cui si stagliano le figure dei “buoni” e dei “cattivi”; mentre nello stato di natura, in cui ogni creatura si trova abbandonata a sé stessa, bontà e cattiveria non hanno senso. Non è forse da una certa dose di aggressività che sono nate le tecniche di difesa e di offesa, come mostra lo scimmione fin troppo intelligente delle prime scene di 2001: Odissea nello spazio? Con il trascorrere dei secoli non ci sarebbero state nemmeno le grandi teorie scientifiche, le innovazioni tecnologiche o le istituzioni come gli ospedali o le università. Del resto, Spinoza sottolineava che gli esseri umani hanno sperimentato come con l’aiuto reciproco possano più facilmente procurarsi quello di cui hanno bisogno ed evitare pericoli che incombono da tutte le parti. È per queste ragioni che nascono gli Stati: ed è in tale condizione civile che “cattivo” è chi ne viola le norme.
Cattiveria o bontà sono solo nozioni dettate dall’uso e pertinenti alla conservazione del proprio essere che ogni individuo persegue entro la società civile. I peggiori cattivi sono quelli ossessionati dalla morte, la propria e quella altrui. Ancora Spinoza: “L’uomo libero non pensa a nulla meno che alla morte, e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita”.
Allora: Buono o cattivo?
Se guardiamo alla storia lunga di Homo sapiens, la risposta pare scontata. Cattivo, anzi feroce. Sia in una prospettiva intraspecifica (nei confronti di individui della sua stessa specie) sia interspecifica (verso altri animali), l’essere umano ha messo in atto forme di violenza, di distruzione e di induzione di sofferenza che non hanno eguali. La diffusione di Homo sapiens ha portato all’estinzione le altre forme Homo e ha comportato la scomparsa, la sottomissione o il drastico confinamento di molte altre specie animali.
La “cattiveria” dell’essere umano non è un prodotto di natura, ma nasce dall’uso mirato, a volte attentamente programmato alla violenza, delle abilità cognitive e culturali che gli hanno permesso di estendere le sue doti biologiche e che sono ugualmente responsabili delle attitudini positive, dalla creatività alla solidarietà. Il dibattito tra i sostenitori di una natura umana egoista e quelli della natura empatica e altruista è viziato nel suo fondamento: nelle lontane origini, nella costituzione genetica e nell’architettura cognitiva si ritrovano le potenzialità di entrambi gli atteggiamenti. Ma ciò che determina “cattiveria” e “bontà” dipende dall’organizzazione sociale e culturale di queste predisposizioni, oltreché dalle loro elaborazioni individuali (comunque sempre interne a uno o più ambienti sociali).
A tal proposito ancora per Hobbes, vi sarebbe nell'uomo l'istinto di sopraffare il proprio simile, come il lupo che, per sopravvivere, sbrana il più debole. Secondo Hobbes, la natura umana è fondamentalmente egoistica, e a determinare le azioni dell'uomo sono soltanto l'istinto di sopravvivenza e quello di sopraffazione. Egli nega che l'uomo possa sentirsi spinto ad avvicinarsi al suo simile in virtù di un amore naturale. Se gli uomini si legano tra loro in amicizie o società, regolando i loro rapporti con le leggi, ciò è dovuto soltanto al timore reciproco.
Nello stato di natura, cioè uno stato in cui non esista alcuna legge, ciascun individuo, mosso dal suo più intimo istinto, cercherebbe quindi di danneggiare gli altri e di eliminare chiunque sia di ostacolo al soddisfacimento dei propri desideri. Ognuno vedrebbe nel prossimo un nemico. Da ciò deriva che un tale stato si trovi in una perenne conflittualità interna, in un continuo bellum omnium contra omnes (guerra di tutti contro tutti), nel quale non esiste il torto o la ragione che solo la legge può distinguere, ma unicamente il diritto di ciascuno su ogni cosa, anche sulla vita altrui.
Fuori dall'ambito strettamente filosofico, l'espressione è ancora utilizzata per sottolineare, in tono ora ironico ora sconsolato, la malvagità e la malizia dell'uomo. Ha lo stesso valore di mors tua vita mea (la tua morte è la mia vita). La frase è la palese rappresentazione dell'egoismo umano. In opposizione a tale rappresentazione dei rapporti umani, Seneca scrisse che “l'uomo è una cosa sacra per l'uomo”. Infatti pur in una storia complessiva di “cattiveria” e sopraffazione, non è difficile individuare gruppi che hanno praticato la solidarietà come norma sociale. Molte società acquisitive (quelli chiamati un tempo cacciatori e raccoglitori) si sono caratterizzate per uno stile di vita estremamente rispettoso nei confronti di altri esseri viventi, restituendo ai posteri ambienti per nulla impoveriti da millenni di occupazione umana. Bontà e cattiveria quindi sono davanti a noi, non dietro, perché discendono da scelte individuali e collettive.
Non sono in grado di dire se l’uomo nasca buono o cattivo. O almeno se l’uomo nasca “totalmente buono” o “totalmente cattivo”. Secondo me molto dipende dalle circostanze in cui ci si trova a vivere, altrimenti a che cosa sarebbe servita la lezione di Claude Lévi-Strauss (padre dell’Antropologia moderna)? Ma forse nemmeno questo è vero, almeno in maniera assoluta: perché, allora, chi nasce in un quartiere degradato come Scampia o in una favela di Rio de Janeiro dovrebbe essere, sempre e comunque, cattivo. Invece non è così. La bontà e la cattiveria umana sono un grande punto interrogativo, nascosto dietro una serie di innumerevoli dubbi: perché, ad esempio, un mafioso o un camorrista sceglie di vivere nascosto, mangiando pane e formaggio? A che serve, nel suo caso, essere malvagi?
O pensiamo alla famosa storia del Conte Ugolino, un padre straziato dalla fame, si sarebbe nutrito dei corpi dei figli ormai deceduti.
Immediatamente guardiamo alla parte più cattiva di Ugolino: il verbo “manducare”, esprime con pienezza l’idea del mangiare avidamente (già utilizzato da Dante nelle Rime Petrose: “…che ogni senso con li denti d’amor già mi manduca”, dove in questo caso, sono i denti della morte a divorare il poeta innamorato). Eppure un uomo che nella sua dannazione non riesce a smettere di odiare ma, allo stesso tempo, un padre che nasconde il proprio dolore ai figli per non renderli partecipi della sofferenza a cui sono destinati.
La loro tragica sorte è segnata da un simbolico giro di chiave, un rumore che chiude tutte le porte della Torre e annienta le speranze di salvezza di Ugolino, costretto ad assistere alla morte di tutti i componenti della sua famiglia, in un susseguirsi straziante di sofferenze, che culmina con la morte del protagonista. Il vortice di sentimenti, rabbia, pena, sofferenza e amore viene rappresentato attraverso una composizione e combinazione astratta di colori: rosso sangue ed insieme amore, giallo sole e nero morte, rabbia, fame e sofferenza.
Niente è più straziante del veder soffrire i propri figli senza possibilità di aiutarli, trovarsi in una terribile e dolorosa condizione di impotenza, senza altro da opporre se non il proprio desiderio di ricevere il male al loro posto.
E allora? Buono o cattivo? Fame infernale o pena eterna o sete di verità? E vi può essere soluzione?
Mi viene in mente la figura dell’artista.
L’artista ha una grande responsabilità, può davvero trasformare con il suo lavoro quello che è cattivo in buono, il ferro in oro. Il suo è un potere quasi alchemico: può trasformare metalli senza valore in metalli preziosi.
Basterebbe pensare al Neorealismo italiano, all’Italia senza speranza e piena di miseria trasformata da Rossellini in qualcosa di bello, eroico e prezioso. O in tempi più recenti a Scola nel suo Brutti, sporchi e cattivi. E se qualcuno esce colpito da un film come il figlio di Saul di Nemes vuol proprio dire che l’arte ha un potere taumaturgico.
La grande magia dell’arte non ha sempre bisogno di cieli azzurri, di prati verdi e di mari blu per essere tale. Ma forse più che gli artisti sono gli architetti ad avere oggi una grande responsabilità: in un mondo così confuso, difficile e pieno di insidie creare spazi senza senso, periferie che alimentano l’esclusione può essere una spinta verso la malvagità, perché il malessere esistenziale è pericolosissimo, può trasformare l’uomo buono in cattivo. “La bellezza salverà il mondo” nell’idiota di Dostoevskij…. La bellezza dell’arte, la bellezza della natura, ma chi salverà l’uomo se non la bellezza del cuore? E quindi l’amore?
Allora non tutto è perduto. Forse tutto può cambiare se rivolgiamo l’attenzione a qualcosa di più grande e così quella spinta altruistica che comunque c’è in ogni essere umano trova una nuova possibilità di espressione grazie all’avvento del Regno.
L’Incarnazione e la Pasqua segnano una tappa fondamentale nella rivincita del bene.
Nella morte in croce del Figlio di Dio il male è vinto e all’uomo, fatto “nuova creatura”, è offerta la possibilità di un definitivo riscatto.
L’esistenza umana si trasforma così in una lotta permanente per resistere agli impulsi dell’egoismo e dell’istinto di morte e aderire all’attrazione dell’amore e della vita. La scelta è, in definitiva, demandata alla responsabilità di ciascuno ed è frutto di una decisione, che si radica nelle profondità della coscienza, dove, nonostante il peso dei condizionamenti interni ed esterni, non viene meno (nelle situazioni normali) la capacità di discernimento e la possibilità di esercizio della libertà.
E così dalla fame infernale può esserci un passaggio alla sete di verità che alla base ha la conoscenza di Dio.