di Massimo Reina
Se ti fermi un attimo, ascolti. Non è solo un’eco, non è il fruscio del vento che si insinua tra gli anfratti. È un sussurro, profondo e antico, come se le pareti della Pirrera Sant’Antonio potessero ancora raccontare i colpi di piccone, il sudore dei cavatori, le risate dei bambini e i sospiri delle torce morenti. È una voce che arriva da lontano, da secoli fa, quando ogni blocco di pietra veniva strappato alla terra con fatica e passione, per diventare parte del grande racconto barocco che oggi definisce la Val di Noto e Melilli stessa.
La Pirrera Sant’Antonio, gioiello del Barocco siciliano
Entrare nella Pirrera è come scendere nella gola di un gigante addormentato. Subito si viene accolti dall’inconfondibile odore della pietra umida e della vegetazione che cresce tra le fessure dei calcari bianchi. È un profumo piacevole che si insinua nelle narici, diverso da quello della terra fresca o della pioggia estiva. È unico, una mistura di passato e presente, di lavoro umano e respiro naturale.
Qui dentro, il tempo rallenta. Non ci sono clacson, né voci di mercato. Solo il rumore delle scarpe contro il suolo irregolare e il lieve fruscio del vento che si infila tra le pieghe della roccia, sussurrando storie che nessuno ha mai raccontato.I pilastri colossali, squadrati con una precisione quasi sovrumana, si ergono come sentinelle in una cattedrale sotterranea. La luce naturale e quella delle illuminazioni architetturali danzano sulle superfici calcinate, creando ombre che sembrano quasi vive.
È un luogo che ti avvolge, ti costringe a rallentare, a prendere fiato. Le pareti, altissime fino a 27 metri, raccontano storie, ma non le svelano mai completamente. I graffi del piccone, le fenditure lasciate dai cunei di legno, i segni della lavorazione manuale, bastano poche immagini per evocare mani operose che stringono quegli strumenti. Parlano di un’epoca in cui la pietra non era solo materia, ma promessa: di ricostruzione, di rinascita, di bellezza.
Dopo il terremoto del 1693, che rase al suolo interi borghi della Sicilia orientale, questa cava e altre della zona si trasformarono in teatri di un’attività febbrile. Era il cuore pulsante della rinascita. Ogni blocco estratto veniva trasportato con fatica, prima su carrelli trainati da cavalli, poi su convogli diretti verso Siracusa, Catania, Messina e persino Malta. E così la pietra calcarea di Melilli, compatta e docile allo scalpello, divenne il fondamento su cui si eresse il trionfo del Barocco siciliano: le chiese, i palazzi, le cappelle funebri che oggi ammiriamo come reliquie di un’epoca gloriosa.
Ma camminando qui sotto, non pensi solo al passato. La Pirrera è intrisa di memorie più recenti, anch’esse scolpite nella pietra. Durante la Seconda Guerra Mondiale, questo luogo divenne rifugio e base operativa per un distaccamento britannico. Gli inglesi portarono con sé la modernità: un impianto elettrico rudimentale, di cui restano ancora tracce, e la promessa di un nuovo utilizzo per questi spazi cavernosi. Ma quella promessa non si realizzò mai del tutto. Con l’avvento del cemento armato e dei graniti lucidi, le cave come questa caddero in disuso, e il loro destino fu segnato.
Eppure, la Pirrera non è morta. No, non del tutto. La sua voce è ancora lì, nascosta tra le ombre. Ogni volta che qualcuno si avventura al suo interno, ogni volta che un visitatore legge un’antica incisione che riporta un nome e una data lasciata da un lavoratore del passato o un militare, ogni volta che una guida racconta le storie dei “pirriaturi” o dei bambini che portavano via il materiale di risulta, quella voce si risveglia. È un sussurro che ti segue mentre cammini lungo i corridoi scolpiti, che ti sfiora come una mano invisibile quando tocchi le pareti fredde e umide.
Alla fine della visita, quando esci all’aperto e senti il sole sulla pelle, qualcosa rimane con te. È una sensazione che non riesci a scrollarti di dosso, un’impressione che non riesci a mettere del tutto in parole. Come se la Pirrera ti avesse lasciato un segno, invisibile ma indelebile. Forse è il ricordo della sua maestosità, o forse è il pensiero di tutte le vite che hanno attraversato quei corridoi nel corso dei secoli. O forse, semplicemente, è il richiamo di quel sussurro che ti invita a tornare, a scoprire di più.
La Pirrera di Sant’Antonio non è solo un luogo. È una storia viva, che aspetta solo di essere ascoltata. E se ti avvicini abbastanza, se ti prendi il tempo per ascoltare davvero, potresti sentire anche tu quel sussurro antico, che vibra tra le pietre e il cuore.