di Massimo Reina
Ci risiamo. La realtà supera l’ideologia, anzi, ci finisce sotto, calpestata, umiliata e rifatta da capo a colpi di sentenze.
La Corte di Cassazione ha deciso: dire “padre” e “madre” sulla carta d’identità è discriminatorio. Serve dire “genitore”. E giù tutti a spellarsi le mani, in prima fila Laura Boldrini che urla – con la solita sobrietà – che dire “mamma e papà” è “bullismo di Stato”. Come dire che Pinocchio è un libro transfobico e Mamma ho perso l’aereo andrebbe rieditato in Genitore ho smarrito il tutore legale.
Quindi, per non discriminare nessuno, si cancella la realtà biologica. E giù, a colpi di cavilli, a trasformare la genitorialità in un atto notarile, un contratto di tutela, una dichiarazione impersonale degna di un bollettino postale.
La distopia è servita
Facciamo un test. Se oggi dici: “Ho due genitori”, sei inclusivo. Se dici: “Ho una madre e un padre”, sei omofobo. E magari pure sovranista. Se tuo figlio ti chiama “mamma” in un parco pubblico, meglio che abbassi la voce: potresti offendere qualcuno.
Ma qual è il fine ultimo? Cancellare la parola “madre”? Abolire la figura paterna? Per parità? Per rispetto? Ma rispetto di chi? Della minoranza che vuole vedere il mondo riscritto secondo l’ideologia del giorno?
Questa non è inclusività. È un’operazione chirurgica sulla lingua, una mutilazione semantica che non emancipa nessuno, ma rende tutti più poveri: culturalmente, linguisticamente e identitariamente.
L'inclusione al contrario
Perché la parità non si ottiene spogliando gli altri dei loro diritti, ma ampliando i diritti per chi non li ha. Se due padri o due madri legittimamente crescono un figlio, bene: che abbiano il loro riconoscimento. Ma non si può imporre il silenzio semantico a chi è cresciuto, vive, o desidera semplicemente continuare a dire “mia madre” e “mio padre”.
La vera discriminazione è questa: l’obbligo di tacere per non offendere.
O peggio: l’obbligo di riscrivere la propria verità biologica, culturale, affettiva per far contenta una corrente ideologica da salotto.
Si può combattere l’omofobia anche senza riscrivere l’anagrafe come un foglio Excel.
Si può riconoscere ogni famiglia senza disintegrare il concetto stesso di madre e padre.
Cassazione o confusione?
Il problema non è il riconoscimento delle nuove famiglie. Il problema è l’imposizione culturale mascherata da diritto.
Quella che parte dai tribunali e finisce nei banchi di scuola, dove i bambini non sanno più se devono dire “papà” o “Genitore 2”, col rischio di beccarsi una nota se si sbagliano.
E intanto ci spiegano che è per “evitare la discriminazione”. Ma la discriminazione è negare a un bambino la possibilità di chiamare la propria madre “madre”, perché da qualche parte qualcuno potrebbe offendersi.
Il mondo alla rovescia
La verità è semplice, ma scandalosa in questi tempi: madre e padre non sono etichette da supermercato, ma parole cariche di storia, di amore, di biologia, di cultura. Non si sostituiscono come fossero pezzi di ricambio.
La follia vera è credere che la libertà consista nel cancellare le parole, non nel aggiungerne.
Che il progresso sia la rimozione di tutto ciò che non si adatta a una visione liquida, asettica, spersonalizzata.
E mentre noi discutiamo su “genitore 1” e “genitore 2”, là fuori ci sono ancora bambini che non hanno né uno né l’altro. Ma per loro, si sa, non c’è hashtag che tenga.