di Giovanni Macrì
Ad “Alcara Li Fusi”, paese dei grifoni, antichissimo centro dei Nebrodi, in provincia di Messina, il 24 giugno di ogni anno, per la festività di San Giovanni, al rito cristiano si sovrappone quello pagano “dû muzzuni”. Un vaso di terracotta con dentro steli di grano arricchito con drappi e gioielli.
Proprio per arrivare a datare l’inizio di questa festa idolatra bisogna tornare indietro nel tempo, alla civiltà ellenica. Al periodo, ovvero, in cui, alcuni troiani sfuggiti alla distruzione e alla rovina della loro madre patria, la città di Troia, trovarono rifugio dove sorge attualmente il paese di Alcara. Si narra che “Patrone”, uno dei Greci superstiti, natio della città di Turio, si separò da Enea e sbarcò sulla costa tirrenica della Sicilia stabilendosi in un luogo accogliente e ricco di sorgenti d’acqua. Qui costruì un castello da lui detto “Turiano”, attorno al quale ebbe origine il primo nucleo abitativo, che in seguito prese, probabilmente dai Saraceni, il nome arabo di Akaret. Da qui Alcara. Ancor oggi si possono ammirare le rovine della fortificazione che domina il paese. Si aggiunse successivamente il nome “Li Fusi”, per indicare l’importanza dei “fusi” per filare che lì si producevano.
Ma andiamo al rito…
Nello stesso giorno coincidono due feste per la comunità degli Alcaresi: quella religiosa di San Giovanni Battista e quella pagana del “muzzuni”.
Un tempo la festa pagana si faceva coincidere con il giorno del 21 giugno, il solstizio d’estate.
Poi, con l’avvento del cristianesimo, venne spostata al 24 giugno, giorno in cui si celebra San Giovanni Battista, martire decapitato.
Da allora elementi pagani e cristiani si sono mescolati in questo rito, o meglio dire succeduti, in questa festa che è da qualche anno, tra l’altro, iscritta al Registro delle Eredità Immateriali della Regione Siciliana.
Finita la processione al Santo, quando questi fa rientro in Chiesa, inizia, infatti, all’imbrunire, la seconda parte di questo caratteristico festeggiamento. Il tutto per non mischiare il sacro con il profano, proprio perché il rito religioso non si può incontrare con quello pagano.
Scompaiono dagli altarini gli angeli e le immagini sacre per dare spazio alla festa pagana, al rito dedicato a Demetra, Afrodite, Dioniso e Adone, divinità della terra, divinità della religione greca che presiedevano la natura, i raccolti e le messi. Scompaiono gli elementi ecclesiastici per dare spazio “'a festa dû muzzuni”, il culto pagano più antico d’Italia, miracolosamente sopravvissuto ai giorni nostri. È la rievocazione dei “misteri eleusini”, un culto agrario che si celebrava ogni anno proprio nel santuario di Demetra nell’antica Eleusi, città greca dell’Attica. È la festa di ringraziamento dei contadini per il raccolto effettuato e propiziatoria per la fertilità della terra.
Nel pomeriggio quindi cambia tutto, il profano prende dunque il posto del sacro. Spariti i simboli religiosi iniziano le danze per la nuova festa. Si canta e si balla inneggiando all’amore, alla giovinezza e alla vita. Una kermesse che coinvolge il paese intero e i tanti turisti provenienti da ogni dove.
Gli altarini vengono preparati per accogliere “ 'u muzzuni”, carico di antiche valenze rituali e simboliche di origine agraria, ognuno dei quali rappresenta un quartiere del paese. Balconi e angoli del paese vengono rivestiti da tessuti coloratissimi, a motivi geometrici, coperte assemblate con ritagli di stoffe (pezze) lavorate e filate su antichi telai di legno a pedale: le “pizzare”.
Anche i piccoli altari sono ornati con drappi, dove verranno collocati dei piatti con steli di grano germogliati al buio per prendere il colore dell’oro: i “Lauretti” (grano seminato il giorno di Sant’Antonio, il 13 giugno, per essere pronto il 24) e anche spighe secche e umili oggetti del mondo contadino.
Quindi, preparati precedentemente e esclusivamente da donne, come vuole la tradizione, vasi in terracotta con il collo rotto (mozzato), da qui il nome “ 'u muzzuni”, sicuramente un simbolo fallico propiziatorio, adornati con foulard di seta e con l’oro delle varie famiglie del quartiere, perché questa è una festa di quartiere, raccolto come ex voto i giorni prima nella cosiddetta “questua dell’oro”, e con steli di orzo e di grano (simbologia di fertilità), di lavanda e anche fiori (possibilmente dei garofanini rossi di rocca… la tradizione vuole che il contadino una volta giunto in paese lanciava alla sua amata sul balcone come simbolo di una promessa di matrimonio), che fuoriescono dall’estremità della brocca, vengono portati fuori e collocati sull’altarino da una vergine, raffigurante un’antica sacerdotessa pagana. Insieme alle spighe di grano, che simboleggia la terra, gli Alcaresi son soliti mettere anche rametti di rosmarino che sembrano essere un richiamo all’omonimo fiume che lambisce Alcara Li Fusi e quindi al potere ritemprante dell’acqua.
Altre fonti fanno risalire, invece, il termine dialettale “muzzuni” al grano che viene falciato e raccolto in fasci (mazzuna).
Il tutto viene allestito rispettando, insomma, un assoluto e caleidoscopico simbolismo che si perde nella notte dei tempi. Un’espressione pleonastica dell’eterno scorrere della vita e della morte.
Davanti ai vari “muzzuni”, disseminati per i quartieri del paese, si eseguono canti d’amore da parte di un innamorato alla sua amata che sta su di un balcone. Ai tempi, si aspettava, infatti, proprio quella sera per farsi fidanzati. Oggi, riproducendo tale tradizione, sono duetti scherzosi uomo-donna, canti di corteggiamento e d’amore, a volte anche non corrisposto.
Addirittura si possono perfino arrivare a eseguire dei canti di inimicizia, dichiarazioni di vero disprezzo verso qualcuno.
Sempre di fronte a questo simulacro, si recita il rito del “comparatico”, momento in cui si consolidano delle amicizie o se ne stipulano di nuove. Attraverso lo scambio simbolico di una “confetta” (confetto), realizzati a forma di un fiore, e la declamazione di una poesia dalle semplici parole, ma cariche di significato, le persone dichiarano il “comparato”, legame sacro di rispetto, tra loro intrecciando i rispettivi diti mignoli.
Questa è la poesia/formula:
“Iriteddu facitini amari
ca 'nni facimu cumpari,
'nzoccu avemu 'nni spartemu
e mai 'nni sciarriamu.
Cumpari semu e cumpari ristamu
quannu veni 'a morti 'nni spartemu”
(Piccolo dito fateci amare
che ci facciamo compari,
quello che abbiamoci dividiamo
e giammai litigheremo.
Compari siamo e compari restiamo
quando viene la morte ci dividiamo.)
Durante la festa, degli appassionati, i cosiddetti “Cantori”, tesorieri indiscussi della “Phoné”, ovvero dell’uso del vocalizzo sia a livello verbale-poetico che per la pratica esecutiva, eseguono con maestria indiscussa, nei vari quartieri del paese, dei canti polifonici: Arcarisa (a due voci, maschile e femminile), “Chjanote” o “Ruggeri”, tramandati di generazione in generazione, che hanno come tema la vita contadina e sopratutto l’amore.
Sicuramente antiche melodie popolari tenute in vita nell’ambito di queste festività che altrimenti sarebbero andate sicuramente perse.
Ai tempi antichi erano le donne anziane che, sedute accanto al proprio “muzzuni”, nel proprio quartiere, percuotevano ritmicamente la “tammorra”, un grande tamburo a cornice costituito da una membrana di pelle di capra o pecora, usandola come mezzo di richiamo, di invito per attirare a vedere l’altarino addobbato. Oggi sono i gruppi folkloristici, intervenuti da varie parti dell’hinterland, che a suon di musica richiamano gli stessi alcaresi o i vari ospiti a visitare questo o quell’altro quartiere.
Durante la festa vengono esposti anche prodotti dell’artigianato locale tipico della tradizione siciliana e si possono gustare alcune specialità gastronomiche caratteristiche. Si balla quindi in piazza fino a tarda notte, tarantelle o quant’altro al suono di tamburelli, zufoli, fisarmoniche e chitarre.
A notte fonda i contadini preparano “'u zuccu 'i Sanciuvanni” (il ceppo di San Giovanni), un grosso tronco di legno, dono della gente di Alcara Li Fusi a Demetra. Un evidente simbolo della fertilità maschile, che viene spogliato dai rametti che originariamente lo rivestivano e poi dato alle fiamme. E mentre questo brucia, tali rametti vengono distribuiti come segno benaugurante agli astanti. Attorno al fuoco, si continua a cantare, ballare, suonare, banchettando all’aperto, coccolati da una felicità che si vorrebbe non avesse mai fine.
Due giorni di celebrazione, un imperdibile weekend tra cibo e feste, natura e cultura con tanti appuntamenti, escursioni e visite guidate nei luoghi tipici del comprensorio alcarese, come la fontana Abate costruita in epoca pre-araba con la sua iscrizione latina: “Quas antro gelidas hausit Gens Turia lymphas, Arcara hoc placido splendida fonte bibit” (La splendida Alcara beve da questo placido fonte le gelide acque che la Gente Turiana cavò fuori dall’antro), la grotta del Lauro in cui si possono ammirare innumerevoli e fantastiche, maestose stalattiti e stalagmiti anche fuse tra loro che regalano al visitatore delle stupende colonne dalle forme più svariate, le rocche del Crasto spettacolari pareti di roccia, anfiteatro roccioso di tipo dolomitico, dove nidificano i grifoni, le poiane e l’aquila reale, il ponte in pietra, realizzato in un’unica campata ad arco ribassato sulla fiumara Rosmarino, o il lago Maulazzo alle pendici di monte Soro.
Una festa sicuramente unica e dal sapore antico che rende impossibile non farsi contagiare dall’incantesimo della serata che stimola ripercussioni profonde negli animi di chi vi prende parte.
N.d.A. - Accanto alla festa, del 24 giugno “’a festa dû muzzuni”, ad Alcara Li Fusi si celebra, il 17 agosto, la commemorazione di San Nicolò Politi, venerato eremita, patrono e protettore della cittadina.
N.B. Foto gentilmente concesse dall’alcarese prof.ssa Dottore Grazia.