di Ivana Orlando
Alla domanda: “C'è una città, tra quelle che hai vissuto, in cui torneresti?”, ho sempre risposto che non mi mancavano i luoghi ma gli spazi. Quella porzione di nostalgia giacente su un intervallo tra forme, odori e momenti.
Sono nata a Torino, ricordo la piazzetta davanti casa mia. Sembrava immensa attraverso gli occhi di una bambina.
E i portici: lunghissimi, chilometrici. Imponenti colonne arcate di marmo fuoriuscenti dal suolo, cingevano il confine con la strada. La bellezza architettonica a misura d’uomo.
L’utilità dell’arte, non solo la sua concezione estetica e storica ma anche l’idea della forma architettonico che risponde alle esigenze dell’essere umano.
Un connubio di forme e di funzionalità che fanno di un’opera l’identità.
Lungo quello spazio, protetto dalla pioggia, dalle neve e dall’autovetture, mio padre mi portava per le prime lezioni di bici.
Infatti i portici furono costruiti in primis per permettere alla nobiltà di fare lunghe passeggiate al riparo dalla pioggia e dai raggi di sole estivi.
I nobili di allora e ora i cittadini piemontesi si trastullano, come tradizione, tra un passo e l’altro, nel prendersi un caffè, un pasticcino e buttar un occhio nelle vetrine dei negozi. Ogni tanto ci si sfiorava lo sguardo tra un passante e l’altro ma a porsi sempre al centro dell’attenzione, il protagonista era sempre il portico.
Un salotto all’aperto.
Sorreggeva le passeggiate come essere a braccetto con la storia.
Ti basta aver sorriso, aver lacrimato o gioito per dar forma e contenuto ad uno spazio.
(Ivana Orlando)
Nell’800 altri spazi porticati si aggiungono a quelli esistenti: piazza Vittorio Emanuele I (ora piazza Vittorio Veneto), poi piazza Carlo Felice, davanti alla stazione di Porta Nuova, e infine piazza Statuto.
I portici di corso Vittorio Emanuele II e corso Vinzaglio, delle vie Sacchi, Nizza, Roma, Cernaia e Pietro Micca, infine, costruiscono un anello pedonale che consente di collegare la stazione centrale di Porta Nuova e quella di Porta Susa.