di Sergio Melchiorre
Leggo in continuazione libri sulla Seconda Guerra Mondiale e, soprattutto, sulla Resistenza; a volte mi chiedo se abbia ancora senso scrivere storie brevi ambientate durante quel particolare periodo storico, o se, come suggeriscono alcuni smemorati storici, non sia arrivato il momento della riconciliazione o della riappacificazione, almeno formale, tra i belligeranti.
Dopo aver letto il libro La vendetta tedesca di Gerhard Schreiber, ho maturato l’idea che non ci possa essere nessun perdono, neanche dopo quasi ottant’anni, per quei nazifascisti che hanno compiuto massacri indiscriminati, deportazioni di massa, esecuzioni capitali ed eccidi di ogni genere.
Dall’otto settembre 1943 al 25 aprile 1945, si calcola che in Italia ci furono oltre cinquemilacinquecento episodi di brutalità inaudita, perpetrati dalle rappresaglie nazifasciste, nei confronti dei civili e dei partigiani, durante i rastrellamenti che causarono la morte di circa ventitremila italiani.
Si conta, inoltre, che la follia hitleriana causò la morte di millecinquecento bambini e adolescenti.
Di solito, a scuola i libri di storia ricordano i massacri compiuti con inenarrabile violenza dai nazifascisti, le stragi delle Fosse Ardeatine, di Sant'Anna di Stazzema, di Marzabotto, di Monte Sole, di Sant’Agata, delle Fosse del Natisone… e dimenticano, in buona fede o per motivi di spazi editoriali, di menzionare quelle stragi, forse meno note, compiute dalla Wehrmacht, dalle S.S. e dalle miliziani della R.S.I.
Vorrei omaggiare, almeno idealmente, le vittime dell’Eccidio di Pietransieri, avvenuto il 21 novembre 1943, dove i soldati tedeschi trucidarono 128 persone inermi, di cui 60 donne, 34 bambini, e molti anziani, senza nessun motivo che potesse giustificare quell’orribile massacro.
I carnefici germanici, che agirono in base al bando emanato da Albert Konrad Kesselring il 30 ottobre 1943, avendo come oggetto l’evacuazione di Roccaraso e di Pietransieri, e che riporto integralmente: «Questo paese per esigenza di guerra deve essere distrutto. La popolazione è invitata a lasciare il paese entro le ore 12 del giorno 31 ottobre 1943. La popolazione potrà portare solo qualche indumento indispensabile e dovrà recarsi a Sulmona. Dopo la predetta data e ora, tutti coloro che si troveranno ancora in paese o sulle montagne circostanti saranno considerati ribelli e ad essi sarà riservato il trattamento stabilito dalle leggi di guerra dell’Esercito germanico».
Molti abitanti delle sopraindicate città non ubbidirono all’ultimatum del bando Kesselring, scritto peraltro in tedesco, e si rifugiarono nel bosco di Limmari, convinti di essersi messi in salvo, ma fu proprio in quel luogo che avvenne l’efferato eccidio.
Le sopravvissute allo spietato eccidio furono due: Virginia Macerelli di sette anni, che si salvò soltanto perché si nascose sotto al corpo inerme della madre evitando così il colpo di grazia, e sua nonna Laura Calabrese di settantotto anni, che scampò miracolosamente alla morte, perché riuscì a buttarsi in un piccolo torrente.
Molti anni dopo la carneficina, Virginia Macerelli rilasciò la seguente intervista a Mille papaveri rossi, un programma televisivo di approfondimento storico in onda sul canale tematico Rai Storia.
«Ero la più piccola dei figli. Si sa che quando c’è un pericolo la madre stringe a sé tutti i figli. Io ero la più piccola e così mi ha abbracciato. Mia madre aveva uno scialle sulle spalle e come i tedeschi hanno mitragliato è caduta ed è morta all’istante. Io sono caduta sotto a mamma e sono rimasta lì, lo scialle di mamma mi aveva coperto… Tutti strillavano. La prima volta che hanno cominciato ad uccidere che urli si sentivano! Poi è rimasto solo silenzio. Non si sentivano neanche più gli uccelli. Niente! Non si sentiva niente. Tutto il mondo era silenzio. Sono rimasta lì sotto a mamma, zitta, non parlavo. Ero piena di buchi, sono piena di buchi. Buchi che passano da parte a parte. Dopo un po’ ho cominciato a muovermi, ma ho visto che c’erano solo morti. Uno sopra l’altro, tutti morti. Avevo alzato la testa quando ero ancora sotto a mamma ed avevo visto mio fratello che mi stava vicino. Mi ha detto: Virginia, è morta mamma? Io gli risposi di sì. Era morta sull’ istante, l’avevo morta su di me. Mio fratello aveva un buco fatto con la mitragliatrice. Un buco da parte a parte che gli aveva trapassato un occhio. Poi, dopo che gli avevo risposto, abbassò la testa e morì anche lui…».
I 128 cadaveri furono abbandonati, sepolti dalla neve, sino all'estate del 1944.
Concludo il ricordo di questo terribile eccidio nazista, citando Cesare Pavese: «Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: "E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?" Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».