di Salvatore Fabiano
“ Hamu pusatu chitarre e tamburi
ca chista musica s'hadda cangià,
simu briganti e facimu paura
e cu a sckuppetta vulimmu cantà!”
Sono i versi iniziali di una vecchia canzone dialettale dedicata ai briganti delle nostre terre. In particolare questa composizione musicale si riferisce al brigantaggio del periodo post unitario, ma il fenomeno, come si sa, viene da lontano, da molto lontano, e si è manifestato, infine e nei secoli scorsi, in vari modi, con ondeggiamenti tra le dominazioni alternatesi nel corso dei secoli 18°, 19° e 20°.
Indubbiamente è un fenomeno che origina dalla povertà, dai soprusi dei ricchi contro i contadini, ma assume, in tempi diversi, connotati di rivolta sociale o di delinquenza comune. Si manifesta in molti angoli della nostra penisola, non ancora Italia. Un personaggio romantico è, ad esempio, il romagnolo Stefano Pelloni, consegnato alla storia da Giovanni Pascoli con i versi:
“Romagna solatia dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il passator cortese,
re della strada, re della foresta” .
Il protagonista di quella storia cessa di vivere nel 1851, ucciso dalla gendarmeria dello Stato Pontificio.
Il brigantaggio meridionale nasce e si radica nelle nostre regioni durante la Repubblica Partenopea di fine '700.
Oggi è invalsa l'idea di indicarlo come fenomeno rivoluzionario contro coloro che unirono l'Italia sotto un solo nome per la prima volta. Contro gli occupanti piemontesi, per chiarezza, ed a favore degli occupanti spagnoli o francesi.
Il brigantaggio è altro!
Quello che narro afferisce a fatti briganteschi, all'interno dei quali trova spazio una storia interessante il territorio di Belvedere agli inizi del 1800. I ribelli sono tanti e vagano da un versante all'altro della politica e della società.
Nel cosentino, ad esempio, dominano e spiccano le figure di Pietro Monaco, detto il “Bruttacera”, e di Maria Oliverio, detta Ciccilla. Compiono furti, rapine e sequestri di persona. Pietro Monaco diserta il servizio militare nell'esercito borbonico e si arruola con i garibaldini, poi compie il salto tra i borbonici ed ancora a briglia sciolta tra le campagne della Sila. Un personaggio controverso come altri.
A precederlo dalle nostre parti è il gruppo facente capo a Giuseppe Necco di Scalea, mezzo secolo prima. Una nutrita banda domina la parte medio-alta del Tirreno Cosentino con sconfinamenti importanti nel basso potentino e salernitano.
L'attività, presente durante la Repubblica Napoletana del 1799, è prima incoraggiata ed utilizzata,ma poi repressa dai francesi di Gioacchino Murat e di Giuseppe Bonaparte. Ad un certo punto sembra debellata dai provvedimenti legislativi del Cardinale Ruffo, nativo di San Lucido, favorevole ai Borbone e contro i francesi. Emette un editto di perdono verso i briganti, una volta ritornato in sella di ritorno da Palermo, ove era scappato insieme al re. Si illude di placare gli animi dei rivoltosi che stanno contaminando il popolo contadino. Ma così, alla fine della storia, non è. Il brigantaggio rinasce con l'arruolamento di contadini scontenti del potere, quale che sia, che impone loro condizioni di vita sempre più precarie. Le tasse imposte, i raccolti da dividere in parti disuguali tra padroni e lavoratori della terra, la giustizia che non è tale davanti a nessun giudice.
Giuseppe Necco, diffonde il detto efficace dei “Ricchi galantuomini nemici della povera gente”. Pare che egli fosse figlio di un frate di Scalea, tale Biagio Rinaldi, divenuto anch'egli brigante. Fra gli accoliti emerge un certo Fra Luigi da Belvedere, non meglio identificato nelle storie disponibili.
Il Necco è spesso a Belvedere ospitato, con ogni riguardo, nel Convento Agostiniano sito all'ingresso del centro medievale. Il suo referente belvederese si chiama Pietro Palazzo, ma è figura di secondo piano. Necco stabilisce un rapporto collaborativo con i Padri Eremitani del Convento di S,Agostino.
A Belvedere svolge la sua missione apostolica il Padre Provinciale don Guglielmo Libonati. Per la verità il frate è molto attivo come fiancheggiatore dei briganti “insurrezionali”e che, in un certo tempo, pare si fosse impossessato di Belvedere, pretendendone la guida. Sarà questo diffuso atteggiamento dei frati una delle ragioni della confisca dei beni delle Chiese da parte dei francesi e la soppressione degli ordini religiosi.
In questo scenario di equivoci e di passaggi matura un fatto luttuoso nel 1805 a Belvedere. Il padre Guglielmo Libonati, responsabile provinciale dell'Ordine, viene ucciso dagli uomini di Necco. Non è dato sapere se a seguito di un assalto al Convento o, molto più facilmente, con dei colpi sparati a tradimento contro di lui, con un appostamento all'interno dello stesso complesso monastico. All'epoca i francesi dominano già tutta la Calabria, ma non il Feudo di Belvedere che cade per ultimo, e solo nel febbraio del 1807, con la destituzione di Marino Vanden Einden Carafa, ultimo feudatario. Il frate ucciso pare che fosse confessore personale della regina Carolina d'Austria. Una storia ricostruita, come son solito fare, attraverso ritagli di notizie prese da vari scritti che la presentano in maniera controversa.
Di briganti, nell'epoca post unitaria, nel territorio del nostro Feudo, non ne nascono,. E' un particolare curioso. Qui il passaggio di poteri dal dominante Borbone al nuovo occupante sabaudo avviene in modo indolore. Basta consegnare le terre e gli altri possedimenti a coloro che già li amministrano per delega del re Borbone e dar loro la possibilità di intestarseli in un nuovo Catasto, dopo la distruzione del precedente. Così i tanti curatori divengono proprietari. Borbone o Savoia nulla cambia. Dopo la stagione garibaldina, i Savoia risalgono la penisola e da noi restano a governare sempre gli stessi, quelli di prima, le stesse famiglie storiche. Cambiano casacca e ognuno resta!
"Tutt'e paisi da Basilicata
si su scetate e mò vonnu luttà
pur'a Calabria s'è arrivutata
e stu nemicu o facimmu tremmà".
Conclude la vecchia canzone, ma così non è nel grande Feudo di Belvedere che comprende un bel numero di Comuni limitrofi. Nessuno più si ribella. Grande è la rassegnazione e l'acquiescenza!