di Michele Petullà
Se n’è andato l’11 gennaio 1999, esattamente ventidue anni fa. D’improvviso, in silenzio. La sua scomparsa ha lasciato un vuoto incolmabile tra gli amanti e i cultori delle sue ballate, sospese tra la dolcezza della musica e la poesia delle parole. Con De André moriva non soltanto uno dei più grandi cantautori italiani, ma anche uno dei più grandi poeti del ‘900, come giudicato dalla critica e in particolar modo dalla scrittrice e giornalista Fernanda Pivano.
Fabrizio De André era, e rimane, uno fra i più conosciuti, amati ed importanti cantautori italiani di sempre. Ne sono testimonianza e dimostrazione i tanti concerti celebrativi e gli omaggi alla sua opera che, sin dalla sua scomparsa, si susseguono sempre più numerosi e partecipati. Nelle piazze e nei teatri di città e di provincia sono centinaia, ormai, le manifestazioni che, ogni anno, gli vengono dedicate.
Sempre fuori dal coro, De André, attraverso le sue canzoni, ci ha parlato anzitutto di libertà, invitandoci a pensare con la nostra testa, rifiutando dogmi, parole d’ordine e slogan da combattimento. Per molti, ascoltare le canzoni di De André è stato come leggere un romanzo di formazione, uno di quei libri in cui si racconta una crescita e ci si identifica in una maturazione; in cui il lettore cresce e matura leggendo.
De André ha stravolto i canoni della canzone italiana con le sue misteriose e magiche ballate, dal ritmo intenso e penetrante, sempre sospese tra mito e realtà. Ha sempre attribuito una maggiore attenzione alla qualità del testo rispetto alla quantità della produzione. E ha sfidato gli arroganti ed i potenti di ogni tempo con il linguaggio sferzante dell’ironia, senza mai cedere alle “leggi del branco”. Molti suoi testi sono considerati dei veri e propri componimenti poetici e, come tali, inseriti in diverse antologie scolastiche di letteratura.
De André era innanzitutto la sua voce, una voce da sciamano suadente, che si riconosceva all’istante come quella, antichissima e vivifica, di un cantore di razza. Quel timbro era così unico, inconfondibile, inimitabile: la sua voce non era mai estranea a ciò di cui parlava. Era una voce etica. In tutte le sue canzoni traspare la ricerca del senso etico prima ancora che estetico. Sembra impossibile immaginare De André senza la sua voce, senza quella voce. In una continua e straordinaria ricerca poetica, De André ha raggiunto un raffinato e profondo pathos, anche nelle canzoni in dialetto che, in genere, incontra molte difficoltà ad entrare nel circuito mediatico. Ma De André, con la sua vibrante e suadente voce, è stato capace di trasformare il dialetto delle sue canzoni in una lingua alta e sensuale; un’eleganza che non è mai folklore ma sempre ricerca, ostinata ed etica.
A De André va sicuramente riconosciuto il coraggio e la coerenza di aver scelto di sottolineare i tratti nobili ed universali degli sconfitti; nelle sue canzoni ha cantato spesso storie di emarginati, ribelli, diseredati, come in una specie di “antologia dei vinti”, dove l’essenza della persona conta più delle azioni e del loro passato. Nella sua produzione artistica De André ha raggiunto alte vette di lirismo poetico. Tale, infatti, è considerato dalla critica: un grande poeta per canzoni. In ogni sua canzone è presente la poesia come atto di amore e di riscatto verso l’umanità ferita e dimenticata.
I versi delle sue canzoni sono sempre improntati ad una personale e disincantata filosofia cristiana, ad una particolare spiritualità, ad una grande eticità e ad una profonda sensibilità. Soltanto un uomo con una grande anima come lui avrebbe potuto scrivere quei versi. L’eleganza, la forza, la grazia, il mistero di quei versi, vestiti di una musica come di sogno, non potevano che provenire dalla mente e dal cuore di un artista così immenso.
Dentro le sue canzoni, ci sono i suoi due immensi mari, sospesi tra la poesia e la rabbia. Ed in mezzo lui, l’artista, l’uomo, un’isola che, tra violente burrasche e sospirate bonacce, sapeva ascoltare il rumore del mare profondo e di tutte le sue creature. Un porto di navi e lingue diverse, di marinai e donne misteriose, dove sbarcavano le sonorità di terre lontane e le parole degli chansonnier francesi che tanto amava.
De André non è stato mai di moda. La moda, effimera per definizione, passa. Le sue canzoni, invece, restano. De André era unico. Lo era nella fatica, nel disagio, nell’inquietudine di creare. Lo era nel cercare sempre una strada propria in mezzo al divismo ed alle ben calcolate produzioni della musica moderna. Un modello inimitabile di coerenza, serietà ed ironia.
La sua produzione artistica è memorabile per varietà ed intensità. Un artista che non ha mai dimenticato che c’è nella musica un mistero prezioso, una sfida, una ribellione che non deve arretrare davanti ai tempi ed alle mode. Le sue canzoni, che hanno il coraggio e la passione di incontrare le diverse culture, sono un vaccino contro ogni razzismo. Ogni sua canzone è un dono misterioso che deve essere conservato.
Ricordare De André significa ricalcare i percorsi dei suoi personaggi, quegli angoli di umanità con cui si confrontava e che ha molto studiato, così tanto da tentare di comprenderli. Si è sforzato di comprendere realtà differenti, usando la gioia del dialogo che, specie di questi tempi, rimane una condizione fondamentale di crescita e di democrazia.
De André ha introdotto nel mondo della musica leggera un nuovo modo di esporre, in musica e in parole, i fatti e la realtà della vita. Ha elevato le parole al rango di racconto-poesia. Per questo rappresenta una leggenda italiana, la cui musica e le cui parole hanno fatto e fanno battere il cuore.
Per tutto questo, De André rappresenta un mito fertile, che ci spinge a non rinunciare al nostro talento, a seguire la nostra rabbia, il nostro stupore, i maestri migliori. De André era uno degli ultimi rimasti. Con semplicità, ma con sentimento poetico ci ha lasciato un grande insegnamento: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Accettiamo la sua sfida: è ancora possibile essere liberi, seri, creativi, senza compromessi e senza paure. (mp)