Nei racconti di mio padre che la Storia l'aveva vissuta sulla propria pelle, quella di un ragazzo di 15 anni che lavorava nel negozio di mio nonno già dall'età di 10 anni dopo aver terminato le scuole elementari (erano altri tempi!), non mancava il racconto di quei giorni del 2 dicembre 1943 e del 9 aprile del 1945, di due eventi che tutti i baresi di una certa età non potevano dimenticare.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre del 1943 con la resa senza condizioni dell'Italia agli alleati anglo-americani durante la Seconda Guerra Mondiale e la fuga da Roma del Re Vittorio Emanuele III a Brindisi il 9 settembre, dal giorno 11 settembre gli alleati occuparono Bari che, per il suo porto e per la sua posizione geografica, era ritenuta una città strategica e, pertanto, era stata risparmiata dai bombardamenti dei giorni precedenti.
La sera del 2 dicembre del 1943, alla fonda del porto di Bari erano ancorate più di 40 navi da trasporto per rifornire le truppe dell'8ª Armata britannica e quelle americane che stavano costruendo decine di basi aeree alleate nella zona di Foggia ed in altre zone della Puglia, a supporto dell'avanzata terrestre degli eserciti nel resto dell'Italia per liberarla dai tedeschi.
Visto che nei mesi precedenti la maggior parte dei caccia bombardieri tedeschi era stata trasferita in Germania, le forze alleate, pensando che Bari fosse un porto sicuro, ne allentarono le difese e anche il radar montato sul tetto del Teatro Margherita non funzionava da giorni.
Fra le navi attraccate al porto c'era anche la "John Harvey" che trasportava 2000 bombe all'iprite, un gas venefico.
La sera di quel 2 dicembre del 1943, contro ogni previsione, 105 bombardieri tedeschi "Junkers Ju 88" della Luftflotte 2 bombardarono a sorpresa il porto di Bari causando devastazione e morte non solo al porto ma in tutta la città.
L'attacco al porto di Bari provocò più di mille morti tra militari e civili, oltre 250 morti nei giorni successivi dovuti agli effetti del gas liberatosi nell'esplosione (sebbene la notizia di quelle bombe fosse top secret e non furono avvisati gli italiani, i medici baresi capirono che si trattava di gas venefico per le dolorose vesciche presenti sui loro pazienti), il danneggiamento di numerose navi cargo e l'affondamento di 17 navi che determinò l'inagibilità del porto di Bari per oltre tre settimane.
Le forze anglo-americane non subivano un attacco così massiccio e devastante in un porto dal 7 dicembre 1941, cioè dall'attacco giapponese a Pearl Harbor.
Un altro disastroso evento per la città accadde ad appena un anno e mezzo di distanza e, quell'episodio, mio padre lo raccontava spesso perché la sua famiglia ne fu direttamente coinvolta.
Quella mattina del 9 aprile 1945, diceva mio padre, due dei suoi fratelli, giovanotti poco più che ventenni, erano andati al porto a chiedere lavoro come scaricatori, per poter guadagnare qualche soldo; c'era lavoro al porto per scaricare la nave americana "Henderson" che trasportava bombe per gli aerei, munizioni ed altro materiale bellico.
Quel lavoro ai miei zii fu negato perché il personale era ormai al completo e, quel che a loro sembrò una circostanza sfortunata, si rivelò essere un miracolo di San Nicola, Santo Patrono della città di Bari, al quale mia nonna era devotissima.
Si lavorava a cottimo, il più velocemente possibile, per portare a casa più denaro senza pensare ai rischi ed ai pericoli perché la fame era più forte del pensiero di saltare per aria.
Pochi minuti prima di mezzogiorno, per cause non note che furono classificate come "incidente", la "Henderson" esplose causando devastazione e morte nel porto di Bari e nelle zone limitrofe della città.
La terribile esplosione causò 1730 feriti, 317 morti tra i civili che in gran parte lavoravano al porto, 13 militari e 35 civili, gli uomini dell'equipaggio della nave americana.
Negli occhi di mio padre rimase impressa l'enorme colonna di fuoco e fumo che si levava dal porto e la scena delle camionette americane cariche di feriti ammassati uno sull'altro che galleggiavano nel sangue mentre venivano trasportati all'ospedale che, a quei tempi, era ubicato nei sotteranei dell'Ateneo nel centro di Bari.
I feriti venivano trasportati anche con mezzi di fortuna, i carretti in legno della frutta, trainati a mano poiché non c'era disponibilità di auto o ambulanze a sufficienza.
Anche mio nonno, uno dei tanti eroi senza nome di quella triste giornata, accompagnò diversi feriti in ospedale con la sua auto Balilla del 1937 targata BA9021 (per dire che in tutta Bari e provincia, in quegli anni, circolavano circa 10.000 autoveicoli!).
Pezzi di lamiera e detriti infuocati volarono in tutta la città e i vetri alle finestre esplosero nel raggio di diversi chilometri.
Mia nonna che, per vedere cosa fosse successo, era uscita per un attimo sul balcone dell'appartamento di Via Nicolai, una via parecchio distante dal porto, vide volare un pezzo di lamiera che, se non fosse riuscita a rientrare in casa per tempo, le avrebbe tagliato la testa di netto.
Una famiglia miracolata la mia, a differenza di tante altre che piansero i morti o che ebbero i propri cari ricoverati per ferite o ustioni.
Secondo le voci circolanti in città, pare che la nave carica di bombe, durante la mattinata, fosse stata già scaricata per più della metà, altrimenti la città di Bari sarebbe stata completamente rasa al suolo.
Il "New York Times" americano e il quotidiano inglese "Union Jack" definirono lo scoppio della nave a Bari come "uno dei maggiori disastri della guerra nel teatro del Mediterraneo" dopo quello del 2 dicembre 1943.