“Siamo della stessa materia di cui sono fatti i sogni e tutta la nostra vita è circondata da un sogno”, diceva Prospero, personaggio chiave della “Tempesta” di Shakespeare. “Torneremo a guardare il mare” di Maria Teresa Infante sembra procedere nella stessa direzione indicata dal mago e trascina il lettore sin dall’inizio in un’atmosfera carica di suggestioni oniriche che affascina e turba i sensi.
Scritta durante il primo lockdown come una lettera ad un’amica, l’opera sfugge a qualsiasi categorizzazione indossando a volte l’abito della prosa ma configurandosi anche come una raccolta di poesie e intime riflessioni. Certamente “Torneremo a guardare il mare” è un diario, una ricerca personale di identità perduta, un viaggio verso orizzonti mediterranei dell’anima ai tempi del Coronavirus.
La narrazione si svolge operando un costante collegamento extratestuale con note canzoni di Lucio Dalla, in particolare “L’anno che verrà” che finisce per costituirne la struttura portante. L’alternarsi di prosa e poesia in una duplice genesi testuale garantiscono subito fluidità e scorrevolezza all’opera. Il racconto srotola simboli e parole d’uso quotidiano e di cocente attualità, termini divenuti colonna sonora del nostro vivere attuale e che assurgono a immagini di ricorrente tormento prendendo le distanze dalla connotazione di un tempo. E se il “lavarsi le mani” , “amuchina” o ancora “aria” ci avvolgono ormai in un involucro di male necessario è il desiderio di respirare e liberarsi dal peso del vivere attraverso la metafora della scrittura che emerge come unica soluzione possibile.
Ecco allora che il mare penetra attraverso le parole come potenza allegorica universale che al contempo rimanda ad un desiderio di normalità ed umanità. La lettura procede a tappe. Testi, meditazioni e riflessioni si accavallano e generano altra prole in una catena naturale e spontanea che non ammette limiti o restrizioni al pensiero. “Evadere non serve quando le gabbie hanno sbarre concettuali” (p.43) è il leitmotiv dell’intera raccolta ed il linguaggio nella sua coesistenza di significante e significato, o di langue e parole per utilizzare la terminologia Saussuriana, rifiuta qualsiasi prigione semantica e sorprende nella sua originalità.
Tra dolore, sogno, attualità, spiritualità e amore il viaggio avvolge il lettore in un contesto di piacevole immersione intellettuale. E se le lacrime sono “di sabbia”, se non abbiamo coscienza del loro peso come non sentiamo la pienezza del mare, allo stesso tempo desideriamo liberarci dei pensieri negativi, inutile zavorra, per poter volare. “Piangiamo senza sapere com’è fatto il sale” (p. 24).
Se la poetessa ha “amato il vento che sfoltiva il capo alle fronde ribelli” e ritrovando il grembo materno ha “ripreso a volare” desidera contemporaneamente restare “ad ascoltare il mare” lasciandosi carezzare dai suoi silenzi in un carme di delicata sinfonia che ci sfiora, leggero come una piuma, coi suoi stupefacenti effetti sensoriali e richiami fonici. (Carezze, p.78)
“Torneremo a guardare il mare” è un gradevolissimo collage di “scontri d’universi” dove operare un necessario “innesto” d’umanità. I nostri occhi rimangono fissi su un mare reale e immaginato, il mare forse della nostra infanzia e dei giochi sulla sabbia nella speranza che il fanciullino che vive dentro noi ci restituisca l’immaginazione perduta. “Ora i miei piedi vanno verso il mare/c’è una bambina ferma ad aspettare/l’alta marea fin qui/non può arrivare” (Alta Marea, p. 41).
Lucia Lo Bianco