………………e son fari
quelle finestre, velieri di
stanche promesse: sono anime
immobili nel carro del tempo
e il loro dolore è cosparso
come foglie screziate dal vento.
(da “Foglie screziate dal vento” - Dedicato ai malati di Covid – di Lucia Lo Bianco)
Non c’è niente di nuovo in un’umanità colpita dalla sofferenza. È insita nell’individuo che nasce o, come diceva il grande Andrea Camilleri, sta tutto scritto in modo indecifrabile su un ticket sin dal momento in cui veniamo al mondo. Eppure nessuno avrebbe potuto fino a un anno fa prevedere il destino segnato per il malato di Covid- 19, relegato a soffrire in completa solitudine e senza il conforto dei propri cari. La stessa sorte tocca a chiunque si trovi, in quest’epoca toccata dalla pandemia, costretto a passare un periodo di degenza in ospedale per patologie diverse dal virus che, forse, vengono messe in secondo piano per l’attenzione inevitabile data ad un’emergenza senza precedenti e per l’impiego quasi totalizzante del personale medico nel tentativo di gestire l’alto numero di pazienti nelle terapie intensive.
Ricoverati in un’anonima corsia in attesa di un’operazione delicata o per un decorso post operatorio d’urgenza senza poter vedere nessuno dei propri cari è un’esperienza senza precedenti. Le restrizioni giustamente imposte dal personale medico e paramedico non consentono visite né la possibilità di incontrarsi da lontano e il malato si ritrova improvvisamente tra gente sconosciuta con cui nasce l’improvvisa e necessaria esigenza di relazionarsi, sia pur per un tempo breve. Non è azzardato dire che si finisce, nella migliore delle ipotesi, per diventare una famiglia con medici e infermieri con i quali si intrattengono conversazioni simpatiche e a cui si comincia a raccontare tutto di sé. A volte, però, la riservatezza prende il sopravvento e la mancanza dei familiari diventa dolorosa al punto da chiudersi completamente in un guscio come una corazza per difendersi da un contesto ritenuto alieno ed ostile. In passato anche i reparti ospedalieri dalle regole più severe lasciavano comunque aperta la possibilità delle visite anche se in orari prestabiliti che venivano spesso fatti rispettare con rigidità. Senza precedenti quindi trovarsi distanti dai propri affetti con l’unico conforto della tecnologia per sentire una voce nota o sorridersi in videochiamata.
È quando arriva la sera, però, che la tristezza del distacco si fa più pressante. Sono lunghe ed insonni le notti di un malato in ospedale, un miscuglio di luci ed ombre cadenzate da sospiri dai letti vicini che si mutano spesso in spaventosi lamenti. Sono notti di camici bianchi che spiano pazienti in affanno e ne controllano il respiro, intervenendo se chiamati anche se stanchi per i lunghi turni in reparto. Sono notti di colori e impressioni che le piccole finestre rimandano, disegnando forme e figure sulle pareti e sul soffitto. Le ore trascorrono lente in quelle notti di veglia continua e la mente proprio non riesce a spegnere il tasto che doni l’oblio ed il sonno desiderato. I pensieri vagano senza riposo, persi per strada verso la linea dell’orizzonte, lì, fuori da quelle mura che trattengono ansie e preoccupazioni e, mentre la sera accoglie la notte sono gli ultimi sparuti abbracci di luce lontani che preparano e stillano le gocce di rugiada del nuovo mattino.