di Massimo Reina
E anche stavolta siamo qui. A piangere una donna uccisa, con la faccia spalmata sui social, le candeline, i minuti di silenzio, le panchine rosse ripitturate da qualche assessore in vena di selfie e buone intenzioni. Ci indigniamo — per uno, due giorni massimo — poi tutto torna come prima. Fino al prossimo femminicidio. E via con il replay.
Questa volta si chiamava Sara Campanella. Una ragazza di 24 anni, piena di vita, di sogni, di futuro. Uccisa a Messina da chi diceva di amarla, come se l’amore avesse mai preso la forma di una lama o di un pugno. Adesso è il momento delle fiaccolate, delle marce, delle foto in bianco e nero. Ma domani? Cosa succede domani?
Perché la verità, quella che nessuno ha il coraggio di dire, è che questo Paese è il miglior amico dei femminicidi. Non per cattiveria, ma per ignavia, per ipocrisia, per codardia legislativa e culturale.
Sì, culturale — come ripetono in tanti. Ma non solo. Perché il femminicidio non è soltanto un “problema culturale”, come piace dire a chi non vuole fare nulla di concreto. È anche e soprattutto una questione di leggi, di Stato, di controllo e prevenzione.
Lacrime a comando, leggi a rilento
E mentre la politica e la magistratura si lanciano nei loro balletti post-tragedia, resta il fatto: si muore ammazzate. E spesso si muore dopo aver chiesto aiuto, inascoltate. O peggio: respinte. Perché le forze dell’ordine — non tutte, ma troppe — archiviano, ridicolizzano, sminuiscono. E quando il caso arriva davanti a un giudice, ecco che comincia il teatrino: “lo stalking non è continuativo”, “la minaccia non è sufficientemente grave”, “non possiamo limitare la libertà dell’uomo”. Ma della donna si può limitare tutto, pure la vita.
Poi c’è il braccialetto elettronico, che sembra più un gadget da Black Friday che una vera misura di protezione. Funziona se l’assassino ha voglia di rispettarlo. Ma un potenziale assassino, per definizione, non rispetta nulla, men che meno un bip metallico.
E infine, il capolavoro della giurisprudenza italiana: la legge sullo stalking che, con acrobazie giuridiche degne di un circo sovietico, rischia di penalizzare la vittima. Perché dimostrare la “reiterazione” è più difficile che vincere Sanremo con una canzone d’autore. Quindi niente condanna, niente protezione. Anzi, spesso la vittima viene denunciata per calunnia, e l’aggressore si prende pure la soddisfazione di vederla zittita dalle stesse istituzioni che dovrebbero proteggerla.
Siamo un Paese in cui gli assassini vengono fermati solo DOPO. Dopo che hanno massacrato una madre, una compagna, una figlia. Quando l’omicidio è diventato una notizia, allora arriva l’esercito di dichiarazioni bipartisan, i tweet indignati, le interviste lacrimose. Ma non serve più a niente. La giustizia dopo è una commemorazione, non una soluzione.
E invece serve agire prima.
Serve credere alle denunce delle donne, non archiviarle.
Serve ascoltarle sul serio, non farle aspettare ore in commissariato per poi invitarle a “riflettere”.
Serve formazione obbligatoria per chi accoglie una denuncia di violenza o minaccia.
Serve una legge che impedisca a uno stalker di respirare a meno di 500 metri dalla vittima, senza scappatoie.
Serve una magistratura che protegga le donne, non gli avvocati degli assassini.
E se qualcuno, con l’aria da illuminato, viene a raccontarvi che “non possiamo prevenire tutto, non possiamo entrare nella testa delle persone”, ricordategli che questa è la scusa dei pavidi. Perché non serve entrare nella testa dei mostri: basta fermarli PRIMA che passino all’azione. Prima che ci tocchi, di nuovo, piangere con le mani nei capelli e la faccia piena di vergogna.
È tardi. Ma non troppo tardi.
Il momento di agire era ieri. Il secondo momento giusto è oggi.
Domani sarà solo l’ennesima tomba da onorare e dimenticare.
Non possiamo permettere che ogni Sara diventi un nome da incidere su una lapide.
Le vogliamo vive.
Protette.
Ascoltate.
Credute.