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"Bisogna sempre chiamare le cose con il loro nome. La paura del nome non fa che aumentare la paura della cosa stessa".

Parto da questa citazione di J.K. Rowling per presentare una considerazione, totalmente personale, come sempre, ma che non per questo deve essere taciuta, sulle parole del professor Massimo Recalcati apparse su diverse testate a seguito del suo intervento alla Commissione speciale consigliare di Modena dal titolo "Per ripartire dopo il Covid", nel quale, secondo quanto riportato, lo psicanalista afferma che non esiste una "generazione Covid", spiegando che "Nel momento in cui etichettiamo i nostri figli in questi termini li stiamo già pensando come vittime e, in quanto tali, non ci sarà alcun futuro per loro". 

Secondo l'analisi del Professore, così come riportata, la soluzione alle crisi vissute da bambini e ragazzi in questo lungo periodo di paure e restrizioni è legata, semplicemente, al ritorno alla normalità. 

Pur articolando un ragionamento molto vero sulla dualità dell'altro, che si è accentuata in questo periodo, con queste parole: "Abbiamo vissuto l’altro come una minaccia di contagio, potremmo trovare fiducia nello stare insieme? Tornerà il mondo come lo conoscevamo prima? Il Covid ha esasperato la doppiezza della necessità umana della relazione e, allo stesso tempo, della paura della relazione, l’altro è luogo di minaccia ma anche di respiro, una doppiezza che dobbiamo oltrepassare”, l'illustre divulgatore lo tradisce, negandone le ragioni e il potenziale, riprendendo le sue precedenti conclusioni, apparse già a novembre sulle pagine di Repubblica: "Non ci sarà nessuna generazione Covid a meno che gli adulti e, soprattutto, gli educatori ed insegnanti non insistano a pensarla e a nominarla”. 

Certo, "Le parole sono importanti" per dirla come Nanni Moretti in Palombella Rossa e il professor Recalcati sa bene che le parole "negazione", "rinnegamento" e "rimozione", nel contesto psicanalitico, rappresentano un importante meccanismo di difesa che entra in campo a parlare di sintomi e che, spesso, è solo grazie la dinamica psicanalitica che evolvono in una presa di consapevolezza e nell'affermazione fondamentale dell' "Io sono". 

Mi domando, però, se una rimozione operata a livello sociale, così consapevole, così deliberatamente predeterminata, non corrisponda più alla freudiana Unterdrückung (forma tedesca per repressione/oppressione).

Mi domando quanto sia espressione di reazionaria pulsione l'idea di promuovere, con giustificazioni apparentemente nobili, una manipolazione del linguaggio, atta a negare la realtà presente e futura.

Parliamoci chiaro, appartengo alla mai etichettata "generazione Vermicino" che ha visto e sofferto con Alfredino Rampi la sua agonia e la sua fine il 13 giugno del 1981. 

Una generazione che ha visto la nascita di un nuovo modo di fare informazione, - definito da uno dei protagonisti come "un reality show terrificante", che ha visto, in tre giorni di TV verità, la sconfitta di uno Stato e la sua incapacità di soccorrere un bambino innocente, a causa della disorganizzazione e dei ritardi della politica, che ha visto l'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, soffrire e cercare di dare speranza al piccolo Rampi, ma pure a tutti noi, bambini in ascolto. 

Una "generazione Vermicino" mai nominata come tale che, eppure, porta nel male e nel bene i segni profondi di quei 3 giorni di sofferenza collettiva ed empatica, ma pure di morbosità mediatica e di assenza di strutture di protezione civile (la ProCiv, nacque finalmente, dopo che la proposta di legge era rimasta parcheggiata in Parlamento troppo a lungo, proprio a seguito della morte di Alfredino Rampi n.d.r.).

Una generazione, segnata cinque anni, dopo dalla paura collettiva generata dal disastro di Chernobyl. Anche questa volta mai etichettata, mai nominata come tale (se non in pochi e piccoli articoli di settore) e anche questa volta con un bagaglio di paure, consapevoli e non, che hanno lasciato il segno nel bene e nel male nei suoi comportamenti futuri.

E parlando della mia generazione potrei continuare a lungo, con l'elenco di eventi che ci hanno segnato e che non essendo stati "parlati" pubblicamente e socialmente dopo, non essendone stati considerati gli effetti psicologici, essendo stati rimossi, hanno prodotto sintomi, molto forti.

Quei sintomi potevano essere riconosciuti e i traumi generazionali collettivi elaborati.

Sarebbe bastata la lungimiranza data dalla consapevolezza che non nascondere - e riconoscere - un evento traumatico comune, genera comprensione, inclusione e soluzioni, proprio attraverso l'incontro e il confronto con l'altro che l'ha vissuto. 

A livello individuale ho avuto la fortuna di affrontare queste "rimozioni" collettive proprio in anni di analisi Lacaniana. E forse, se almeno un po' posso dirmi migliore di prima, è grazie anche agli effetti a lungo termine, prodotti da quelle prese di coscienza.

Ma mi sto dilungando. 

Forse il Professore è sicuro che non si debba riconoscere una realtà così evidente e planetaria, comune a una popolazione di giovani e bambini che, ovunque, è stata segnata dalla paura di un nemico invisibile, dalla privazione della liberta. 

Forse è sicuro che non etichettandola per quella che è, i problemi legati a questa esperienza si risolveranno autonomamente, magicamente insomma. 

Ma per la mia esperienza personale, questa non è la visione psicanalitica, né la speranza legata a questa importante disciplina.

E anche l'arte lo insegna chiaramente: il mostro di Frankenstein è tale, proprio perché non ha un nome.

I miei figli, pertanto, saranno parte della "generazione Covid" e parte del mio compito di padre sarà proprio riconoscere questa appartenenza, sarà leggere le loro necessità, le loro paure future, così come le ricchezze e le proposte di cambiamento anche in relazione a questa esperienza di trauma collettivo, perché solo i giovani potranno ideare, rendere migliore una normalità che non può "tornare" ma deve essere inventata.

Chi nega l'esistenza di un problema dovrebbe sapere che il problema troverà la strada del sintomo per parlare comunque. 

E questo dovrebbe essere il messaggio dello psicanalista non quello di un umile artista, che, forse, si sbaglia...

 

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