di Monica Vendrame
La mattina del lunedì di Pasquetta, mentre il cielo di Roma si tinge di un’alba silenziosa, migliaia di cuori si fermano all’annuncio che nessuno vuole ascoltare: Papa Francesco, il Pontefice degli ultimi, del sorriso disarmante e delle mani tese, sempre pronte a sostenere chi soffre, torna alla casa del Padre. Alle 7:35, nell’intimità della sua residenza si spegne serenamente, mentre fuori il mondo inizia a svegliarsi, inconsapevole di aver perso un faro.
L’ultimo suo gesto pubblico, appena 24 ore prima, è un abbraccio. Davanti a 35mila fedeli in Piazza San Pietro, durante la benedizione di Pasqua, china la testa con quella tenacia fragile che lo caratterizza sempre, accogliendo preghiere, sorrisi, lacrime. Come un padre che consola i figli prima di un viaggio. Chi lo vede in quegli istanti ricorda un uomo in pace, con gli occhi che brillano di una luce antica, quella di chi sceglie di vivere in prima linea, tra le ferite del mondo.
Jorge Mario Bergoglio non è solo un nome nella storia della Chiesa. È il pastore che trasforma il soglio pontificio in una strada polverosa, camminando tra i migranti di Lampedusa, baciando i piedi dei detenuti, sfidando i potenti a «non dimenticare i poveri». Nato da emigranti italiani nella Buenos Aires operaia, porta nel DNA la semplicità delle periferie, il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: «Come vorrei una Chiesa povera, e per i poveri!».
Oggi, mentre le bandiere a mezz’asta sventolano da Palazzo Chigi al Quirinale, e l’Argentina piange con sette giorni di lutto nazionale il suo figlio più illustre, ciò che resta non è il freddo elenco delle cause mediche – l’infezione respiratoria, il cuore affaticato, la complicanza improvvisa – ma il calore di un’eredità fatta di gesti concreti. Quelli di un uomo che preferisce le scarpe consunte alle pantofole dorate, che risponde alle lettere dei bambini, che trasforma la misericordia in un verbo quotidiano.
«Ci ha insegnato che la fede non è un museo, ma un cantiere aperto», sussurra una suora, in preghiera. Nelle ultime ore, mentre i medici parlano di parametri e terapie, lui chiede solo di pregare per chi soffre. Fino all’ultimo, il suo cuore – quello vero, fatto di carne e sogni – batte per gli altri.
Papa Francesco se ne va nel giorno di Pasquetta, culmine della luce pasquale, lasciandoci una domanda immane: come custodire la sua rivoluzione di tenerezza? Forse iniziando da ciò che ripete spesso: «Dio ama chi dona con gioia». Oggi, mentre il mondo lo ricorda con fiori e bandiere, la sfida è trasformare il lutto in impegno. Perché Francesco, il Papa venuto dalla fine del mondo, non ha bisogno di monumenti. Chiede solo strade dove nessuno si senta escluso. E come dimenticare quel suo sorriso? È l’abbraccio di Dio per chi non ha più speranza.