di Massimo Reina
Viviamo in un’epoca in cui la realtà è stata sacrificata sull’altare della narrativa ideologica, dove il valore della verità storica viene annullato per far spazio a una visione distorta del passato e del presente. La cosiddetta politica woke, nata con l’obiettivo dichiarato di combattere le ingiustizie sociali e promuovere l’inclusività, si è trasformata in un’arma di distruzione culturale. Il risultato? Una "cultura" che in realtà non è cultura, ma una parodia di essa, incapace di valorizzare il passato o di costruire un futuro significativo.
Il contesto conta (o almeno dovrebbe)
L'ultimo episodio di questa crociata è firmato Vanity Fair Italia, che in un recente articolo si scaglia contro il classico natalizio "Una poltrona per due", accusandolo di contenere ogni possibile stortura sociale e culturale.
L'articolo è un elenco di condanne implacabili: si parla di "blackface", "servitù afroamericana", "N-word", "oggettificazione femminile", di "mentalità spregevole e figlia di un passato di cui vergognarsi", di "sketch e battute fuori tempo massimo", "retrograda", "offensiva, reazionaria, antiprogressista" e, infine, un "nudo che non supera il test di Bechdel". Una lista impressionante, che sembra più un catalogo di reati morali che una critica cinematografica.
Una delle accuse principali mosse al film è quella di essere figlio di un tempo ormai superato. Ebbene, è proprio così: è un film del 1983. Pretendere che un'opera di 40 anni fa rispecchi i valori e le sensibilità del 2024 è non solo irrealistico, ma anche profondamente miope. La cultura, come ogni aspetto della società, evolve, e ogni opera va contestualizzata nel periodo in cui è stata creata. Il tentativo di giudicare il passato con gli occhi del presente è un esercizio sterile che non porta alcun valore aggiunto.
"Una poltrona per due": satira o apologia?
Le accuse di Vanity Fair sembrano inoltre ignorare il fatto che "Una poltrona per due" sia una commedia satirica che prende di mira proprio i pilastri della società capitalista e delle disuguaglianze sociali. Il film racconta, con ironia e intelligenza, il conflitto tra classi sociali, la corruzione morale dell'alta società e il potere del denaro. Le situazioni comiche, per quanto sopra le righe, non mirano a glorificare stereotipi o discriminazioni, ma a metterli in ridicolo.
Accusare il film di "blackface" perché Dan Aykroyd si traveste da giamaicano è un esempio lampante di come la contestualizzazione venga ignorata. Non si tratta di una rappresentazione denigratoria, ma di una scena grottesca e volutamente caricaturale che rientra perfettamente nel registro comico del film.
La stampa finto-progressista, in nome di una crociata woke, rischia di fare più danni di quelli che vorrebbe combattere. Attaccando opere del passato senza alcuna volontà di comprenderle o contestualizzarle, si finisce per appiattire il discorso culturale, riducendolo a una serie di diktat e condanne morali. È paradossale che questa forma di "progresso" sembri incapace di tollerare la complessità e le sfumature della cultura popolare.