di Lorenzo Rossomandi
Il mondo del mercato dell’auto vive, ormai da qualche decennio, in una realtà parallela: più o meno dalla prima cosiddetta “rottamazione”, anche se i problemi affondano le loro radici lontane nel tempo.
Per questa analisi prenderò in considerazione la realtà italiana, perché è quella che conosco meglio e che più rappresenta le storture che questo settore ha subito, ma non credo che gli altri mercati si discostino molto dalla nostra situazione, visti i risultati che abbiamo oggi davanti ai nostri occhi.
Partiamo dalla storia meno recente.
Gli anni 50-60 hanno rappresentato il primo momento d’oro per l’industria automobilistica. La prima auto per tutti è stata una bella spinta alla crescita della produzione, successivamente la “seconda auto” per (quasi) tutte le famiglie, degli anni settanta e ottanta, ha continuato a dare un notevole impulso al settore.
In seguito il mercato è diventato maturo. Un mercato di solo ricambio, dove la crescita era solo un ricordo. Così il sistema è andato in crisi e la politica, davanti allo spettro di decine di migliaia di lavoratori licenziati, ha iniziato a preoccuparsi. Arrivarono le stagioni delle casse integrazione costanti, con l'assillante “ricatto” del principale produttore nazionale verso la politica stessa: o mi aiuti, o licenzio.
E con questo sistema industriale “dopato” si andò avanti per tutti gli anni ottanta e buona parte dei novanta, fino alla prima rottamazione statale di fine anni novanta. Un mercato che passò dal milione e mezzo di unità, che si registravano intorno alla metà degli anni novanta, alle oltre due milioni e centomila auto vendute dell’inizio anni duemila; un’impennata che non poteva che creare uno sconquasso senza precedenti al sistema produttivo in essere e, come si è poi verificato, senza speranza di tornare alla normalità.
Quel fenomeno ha portato le fabbriche, la distribuzione e il commercio delle automobili a livelli mai visti prima. E si sa, quando un settore raggiunge vette così alte, poi diventa molto difficile fare dei passi indietro.
Così questo settore ha dato vita ad uno dei paradossi più estremi che il sistema capitalistico abbia creato.
Il meccanismo che ha aiutato a creare questa stortura del sistema produttivo si chiama “economia di scala”. Il concetto è facile: se produci meno di un certo livello, i costi non sono ottimizzati e la tua attività non è efficiente; mentre se produci sopra un certo livello rischi di dover aumentare gli investimenti e i costi, rendendo poco conveniente tale crescita, soprattutto se la domanda non è più così forte. Quindi, in questo caso la scelta migliore sarebbe restare fermi.
Ma, come è successo, se un elemento esterno, come ad esempio un incentivo statale, interviene provocando un aumento robusto e repentino della domanda, le aziende, a regime, non possono far altro che aumentare la propria capacità produttiva per approfittare di tale opportunità. Peccato che, come ho detto prima, indietro non si torni a causa dei motivi della già citata economia di scala, degli ammortamenti degli impianti e, non ultimo, delle notevoli difficoltà nel licenziare migliaia di persone.
Ed è proprio quest'ultimo elemento che ha determinato un intervento praticamente fisso dello Stato nel settore automobilistico, sotto forma sia di ammortizzatori sociali che di nuovi incentivi.
Così, grazie all’intervento degli Stati e alle economie di scala, siamo arrivati, a metà anni duemila, a produrre nel mondo oltre sessanta milioni di autovetture, quando il mercato ne richiedeva, sì e no, quaranta milioni.
Un settore che non guardava più alla capacità del mercato di assorbire la produzione, ma guardava solo a quel numero che permetteva loro di ottimizzare la produzione.
A vendere il surplus ci avrebbero pensato la distribuzione e le reti commerciali.
Per questo siamo passati da un mercato in cui era il cliente che pregava per avere un’auto, dove era il produttore che manteneva i livelli di produzione bassi e i prezzi alti, alla guerra dei prezzi, all’incremento smisurato della produzione e alle case costruttrici, che pur di non pregare i clienti, hanno iniziato a pressare le reti di vendita con obblighi di acquisto, lavoro senza soste e margini da fame.
Faccio parte del sistema distributivo del settore da circa trent’anni e conosco abbastanza bene le dinamiche di cui parlo.
Ho visto le società importatrici delle case madri passare dalla pianificazione quinquennale della gestione delle vendite, della qualità del servizio e della fidelizzazione della clientela a un’isterica gestione dei volumi di vendita. Un’attenzione spasmodica ed esclusiva ai “numeri”, dimenticando tutto il resto; manager concentrati solo su ciò che a loro permetteva di far carriera, senza curarsi se il sistema stesse tenendo; manager che da ruoli quinquennali passarono ad essere sostituiti dopo pochi mesi. Uomini scelti per lavorare come schiacciasassi senza cuore, senza alcun rispetto per aziende e persone che avevano l’illusione di sentirsi partner di un sistema che li stava stritolando. Aziende della rete di vendita portate, senza alcun rimorso di coscienza, al fallimento, solo per raggiungere l’obiettivo che avrebbe permesso, al direttore commerciale di turno, di fare il salto di qualità nella propria carriera.
Aperture domenicali, aperture serali, aperture h24, pur di raggiungere il numero magico: l’obiettivo vendita assegnato, che, ovviamente non può essere mai inferiore a quello precedente.
Un sistema che vive di sole illusioni, di cifre di vendite gonfiate da vetture immatricolate come chilometri zero, cessioni a noleggi e aziende sotto costo. Un sistema che mente a sé stesso e tutto per non voler accettare la cosa più ovvia: che un sistema preveda anche dei cali fisiologici.
Con queste basi, qualcuno si sorprende davvero di quest’ultima crisi che vede coinvolte le maggiori case automobilistiche europee?
O non è altro che una diretta conseguenza di un sistema che di normale non ha proprio niente? Che continua ad accumulare e spartirsi tra azionisti e grandi manager il denaro guadagnato quando il mercato, raramente, funziona e va ad elemosinare, piagnucolando, denaro pubblico quando le cose diventano più complicate?
La sensazione è che, adesso che viene chiesto loro di investire in motorizzazioni pulite, i ricatti e i piagnistei si siano rafforzati.