di Massimo Reina
Che meraviglia, l’Italia: mentre i giovani scappano all’estero per trovare stipendi decenti e possibilità di costruirsi un futuro, qui continuiamo a discutere di denatalità come fosse un fenomeno climatico, inevitabile come la pioggia.
Ma davvero vogliamo continuare a raccontarci la favola che la denatalità in Italia sia solo una questione di mentalità o, peggio ancora, di fertilità maschile e femminile?
Istat, crollo delle nascite in Italia
La verità è un’altra, ed è pure piuttosto semplice: chi è il folle che, in un Paese dove la precarietà lavorativa è la norma, gli affitti costano quanto uno stipendio intero, e i mutui sono un miraggio, può pensare di mettere al mondo un figlio? A questo si aggiungono un caro vita fuori controllo, bollette da capogiro, e zero supporto dallo Stato. Altro che scelte personali, qui siamo di fronte a un sistema che rende impossibile pianificare un futuro. Il problema non è chi non vuole avere figli, ma chi non può permettersi di farlo.
L’Istat ci racconta di culle vuote, ma la risposta del sistema è un’altra: un bell’abbraccio alla rassegnazione. Dopo l’indifferenza e l’incapacità di agire, siamo entrati nella fase dell’impotenza rassegnata. Come se il calo delle nascite fosse una profezia auto-adempiente: “Non possiamo fare nulla, quindi tanto vale lasciar perdere”.
Ma attenzione, questa rassegnazione non è solo un problema culturale, è una scelta politica mascherata da fatalismo. Dire che "ormai non si può più invertire il trend" serve solo a giustificare il taglio delle risorse destinate alle famiglie e ai giovani. E intanto i costi di crescere un figlio continuano a lievitare, spingendo chi è meno fortunato a fare figli altrove, magari in Germania o in altri Paesi europei dove lo Stato investe davvero sulle nuove generazioni.
Più problematico al Sud
La partecipazione delle donne al mercato del lavoro supera di poco il 50%, ben lontana dalla media europea, mentre i giovani affrontano tassi elevati di disoccupazione e un alto numero di NEET (Not in Education, Employment or Training). Anche i laureati spesso emigrano per trovare opportunità lavorative adeguate, alimentando la cosiddetta “fuga dei cervelli”. Nel 2020, circa 23.000 laureati italiani di età compresa tra 25 e 39 anni hanno cercato fortuna all’estero.
In questo contesto, si intensificano le disuguaglianze territoriali e sociali: il divario tra Nord e Sud rimane profondo, e la povertà colpisce in modo allarmante le fasce più giovani della popolazione. Un bambino su 10 vive in condizioni di povertà assoluta, mentre uno su quattro affronta la povertà relativa. Alla povertà economica si aggiunge quella educativa, che limita le opportunità di crescita e sviluppo delle nuove generazioni.
Risultato? Più povertà, più vulnerabilità sociale, più bambini che crescono in condizioni difficili, senza sostegni adeguati. Inutile sperare che basti l’immigrazione a risolvere il problema: i flussi migratori non possono compensare una crisi demografica interna, soprattutto se le politiche di integrazione e supporto ai giovani restano quelle di sempre, ossia inesistenti.
E dunque mentre i numeri del PIL si sgonfiano insieme alla popolazione, l’Italia continua a balbettare sul futuro, senza capire che gli altri Paesi hanno già capito: una combinazione di sostegno economico, servizi per la conciliazione lavoro-famiglia e autonomia giovanile è l’unica ricetta per fermare il tracollo. Ma da noi, si sa, è molto più semplice lasciare le cose come stanno, aspettando che sia il tempo a risolvere, o meglio, a seppellire, i problemi.