di Massimo Reina
La guerra di Netanyahu è una di quelle operazioni di precisione politica che sembrano uscire da un manuale di geopolitica per aspiranti dittatori e Primi Ministri in difficoltà. Ebbene sì, perché se togliamo il contorno di retorica sul "diritto di Israele a difendersi" e sull'eterna “minaccia del terrorismo", quel che resta è un disegno chiaro: l'espansione del potere, evitare la defenestrazione e il carcere, e il mantenimento di uno status quo che giova solo a chi ne trae beneficio. E chi se non Benjamin Netanyahu?
La Corte Suprema israeliana ritiene il suo governo una minaccia per la tenuta democratica del Paese, mentre i dati lo vedono da anni inviso alla maggioranza della popolazione: un sondaggio condotto a febbraio ha stimato che se si andasse a elezioni anticipate i partiti dell’attuale opposizione sarebbero ampiamente in grado di formare un governo senza l’aiuto del suo Likud, né tanto meno dei partner di estrema destra suprematista ebraica, da Sionismo Religioso alle formazioni ultraortodosse Shas e Giudaismo unito nella Torah, da Otzma Yehudit a Noam. Ecco perché Netanyahu, ormai alle corde, con il suo solito stile da "macchina politica", ha probabilmente tirato fuori il coniglio dal cilindro.
Inizia tutto con un pretesto, il vecchio trucco dell'attacco terroristico improvviso, di cui nessuno sa nulla. E qui ci scontriamo con il primo mistero: come ha fatto l'invincibile esercito israeliano, con la sua "Iron Dome", la sua rete di droni e tecnologia di sorveglianza di ultima generazione, così come il Mossad, il più potente dei servizi segreti al mondo, a farsi beffare da una banda di terroristi della Striscia di Gaza? Una coincidenza? Certo, se vogliamo credere ancora a Babbo Natale.
In qualsiasi altro Paese, un evento del genere avrebbe scatenato inchieste su inchieste, ma non in Israele, dove l'unico effetto è stato quello di consolidare il potere di Netanyahu. Poi, magicamente, ecco la guerra. E con essa, come per incanto, la sospensione di ogni possibile azione politica contro di lui. Quel processo per corruzione, frode e abuso d'ufficio, che lo tiene sveglio la notte e che senza il potere potrebbe spalancargli le porte del carcere, è finito in stand-by, bloccato in un limbo giudiziario degno delle migliori soap opera. E guarda caso, nessuno adesso osa nemmeno menzionarlo. Del resto, quando piovono bombe, chi ha il tempo o la voglia di pensare a tangenti e giochetti di palazzo? Tutti zitti, tutti patrioti, tutti uniti dietro a Netanyahu.
Ma non contento di aver messo a tacere i guai giudiziari, il buon Bibi ha deciso di approfittarne per far felici i suoi alleati di governo e anche qualche amico oltreoceano, prendendo i proverbiali due piccioni con una fava. Perché questa guerra non è solo l'ennesima operazione militare contro i "terroristi" di Gaza o Hezbollah. No, no, questa è molto di più. È diventata il primo tassello di un mosaico ben più ambizioso: la realizzazione del sogno di Netanyahu, la "Grande Israele".
Netanyahu non ha mai fatto mistero delle sue ambizioni territoriali, sostenendo, apertamente o meno, l'occupazione e l'espansione su territori palestinesi. E se nel frattempo gli alleati americani trovano una scusa per dare una spallata all'Iran, tanto meglio. A chi interessa qualche migliaio di morti palestinesi o qualche missile che cade su Tel Aviv?
Del resto, gli Stati Uniti sono lì a fornire supporto incondizionato. Il Pentagono è la stampella di Israele da decenni, e la missione comune sembra chiara: dipingere l'Iran come il grande nemico dell'Occidente. Prima o poi, qualcosa succederà, e sarà l'ennesima "guerra necessaria". Dopotutto, le guerre, per chi le fa da lontano, non sono altro che un mezzo per risolvere problemi di casa propria.
Certo, nel frattempo l'Occidente chiude un occhio, anzi tutti e due. E mentre Netanyahu rafforza la sua presa sul potere, nonostante sul suo capo penda un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale de L’Aia per “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” commessi nella Striscia di Gaza dopo l’8 ottobre 2023, a Washington e Bruxelles ci si preoccupa più di fare dichiarazioni di circostanza che di fermare il massacro. Ma è così che funziona: la guerra è il collante perfetto per un premier in crisi, e se si tratta di uccidere qualche migliaio di persone per salvare una carriera politica, Netanyahu non esiterà un secondo.