di Massimo Reina
Il lavoro dovrebbe essere la base su cui si costruisce la dignità di una persona. Lo dice la Costituzione, lo dice il buon senso, lo direbbe anche il più mediocre dei politici. Eppure, guardando al panorama lavorativo italiano, la realtà è ben diversa: precarietà, incertezza, false promesse.
I dati ufficiali stimano circa 2,7-3 milioni di lavoratori precari (Agorà Lavoro), ma il fenomeno del lavoro sommerso in Italia è esteso. Le stime sul lavoro irregolare indicano che ci sono almeno 3,2 milioni di lavoratori in nero, secondo rapporti recenti dell’ISTAT e del Ministero del Lavoro. Questo potrebbe quasi raddoppiare il numero effettivo di lavoratori precari, portando la cifra complessiva a oltre 5-6 milioni.
Il lavoratore moderno vive in una condizione di perenne insicurezza, dove la speranza di una stabilità sembra un miraggio sempre più lontano, e la dignità sembra essere diventata merce di scambio nelle mani di chi ha il potere di decidere chi resta e chi viene scartato.
È uno scenario drammatico, fatto di contratti a tempo determinato, collaborazioni "a progetto" che di progetto non hanno nulla, e partite IVA aperte sotto costrizione più che per libera scelta. Una precarietà che non si limita al portafoglio, ma si insinua nella mente e nell'anima del lavoratore, giorno dopo giorno. Non si tratta solo di pagare le bollette o mettere insieme uno stipendio che consenta di arrivare a fine mese.
No, è qualcosa di molto più profondo: si tratta di vivere con il peso costante del dubbio, della paura di non sapere se domani ci sarà ancora un posto per te. E di subire ricatti. Sempre. Costantemente. Lavoratori lasciati a galleggiare nell'incertezza, mentre i datori di lavoro, gli imprenditori, i politici di turno fanno spallucce. Tanto, pensano: "il prossimo contratto arriva". E se non arriva? Poco importa: c’è sempre qualcun altro disposto a fare lo stesso lavoro, magari per meno soldi.
Il risultato? Un senso di impotenza che diventa rabbia, frustrazione, disillusione. Quando il lavoro – quel lavoro che dovrebbe darti dignità – diventa una lotta quotidiana per la sopravvivenza, è inevitabile che il lavoratore si senta abbandonato, tradito. Ed è qui che il circolo vizioso della precarietà si chiude. La frustrazione si trasforma in paura, la paura in isolamento, e l'isolamento in rassegnazione. Perché alla fine, di fronte a un sistema che ti tratta come un numero, che ti promette e poi ti toglie, anche il più forte dei lavoratori crolla. E chi crolla, in questo sistema, è destinato a scomparire. Non perché non sia capace, non perché non abbia voglia di fare, ma perché è stato lasciato solo. Solo con le sue paure, le sue delusioni, i suoi rimpianti.
La verità è che di precarietà si muore. Prima dentro, poi per davvero. Si muore perché, alla lunga, non si può vivere di promesse vuote. Si muore perché senza lavoro, senza dignità, senza un futuro stabile, non c’è vita. E il peggio è che, dietro questa morte lenta e silenziosa, c’è la complicità di chi avrebbe potuto fare la differenza ma ha scelto di non farlo.