È l’alba della comunicazione pubblicitaria, utilizzata non soltanto per suggerire al consumatore l’acquisto del prodotto, caricato di valenze simboliche, ma anche per differenziare il singolo produttore di agrumi da tutti gli altri: il regno esclusivo del produttore di agrumi passa attraverso un segno sintetico, il marchio di fabbrica.
Il segno però – tiene a precisare Antonino Buttitta, autore di un saggio dell’opera – ricade all’interno di un universo simbolico più articolato e complesso, quale è il mito di una bellezza primigenia, di un’isola felice con i suoi “giardini” sempreverdi, nella quale il limone assurge a simbolo del sole, consentendo l’identificazione della Sicilia, e quindi del produttore, con simboli di vita quali il limone o gli agrumi più in generale.
Al principio del Novecento gli agrumi siciliani vengono esportati in tutto il mondo. Nasce un peculiare linguaggio commerciale (nonché un'arte del packaging avanti lettera), applicazione ingenua e sorniona al tempo stesso di sofisticati modelli pubblicitari creati di regola nel Nord Italia. La mostra From Palermo to America documenta l'allargamento e l'approfondimento della ricerca iconografica pubblicitaria. Grazie anche al coinvolgimento di numerosi collezionisti siciliani, si è ampliata la raccolta delle locandine commerciali, degli "scacchetti" o "fazzoletti" (le veline che avvolgevano i frutti), dei traforati metallici utilizzati per marcare" le cassette degli agrumi e delle relative matrici di carta; e sono venuti alla luce reperti ulteriori, quali i listini delle aste agrumarie di New York, New Orleans, Amburgo, in cui si ritrovano in forma più stilizzata le varie "marche" degli esportatori siciliani. Il catalogo comprende testi di Antonino Buttitta (sul mito del limone siciliano dal punto di vista dell'antropologia simbolica), Salvatore Lupo (sulla storia economica della produzione ed esportazione degli agrumi di Sicilia) e Sergio Troisi (sulla retorica impiegata dall'iconografia commerciale agrumaria); e ripropone la nota dello scomparso Hans Sternheim pubblicata in "Dove fiorisce il limone" nel 1983, preziosa testimonianza in merito alle pratiche lavorative del settore.
Una Sicilia di carta per vestire i limoni
“Fino al 1984 non sapevo che gli “scacchetti”, vale a dire quei foglietti quadrati di carta velina che avvolgevano gli aranci d’esportazione e recavano stampato a colori il marchio della ditta esportatrice, in origine venivano adoperati per incartare i limoni. Fu un bellissimo e illustratissimo libro a cura di Antonino Buttitta, magnificamente stampato da Enzo Sellerio, apparso proprio in quell’anno, a insegnarmi come stavano le cose.
In origine, dunque, fu il limone. I maggiori paesi importatori, dalla seconda metà dell’Ottocento, erano Inghilterra, Stati Uniti, Germania. Tanto per fare un esempio di quantoil mercato siciliano fosse importante, basterà dire che la Sloman di Amburgo, una società di navigazione, ogni cinque giorni mandava una sua nave a Palermo per caricare da diecimila a ventimila casse da 300-600 frutti ognuna che servivano solo per Amburgo e Brema. Ma settimanalmente partivano navi stracolme per Londra, Copenhagen, New York e altri porti inglesi e canadesi.
Ogni cassa, ai quattro lati, aveva i “pizzi”, cioè carte veline illustrate coi bordi merlettati, e talvolta anche le “frinze”, cioè strisce di carta colorata. Aperta la cassa, appariva subito la “fodera”, un foglio di carta velina col marchio dell’esportatore che ricopriva interamente la prima fila di limoni. Ogni limone della prima fila era incartato nel suo “scacchetto”. Le file sottostanti, no. Ma per evitare che i compratori si facessero l’errata idea che i limoni delle altre file fossero meno buoni, una scritta generalmente in inglese rassicurava che tutti i limoni di quella cassa erano ottimi “da cima a fondo”. Il perché di tutte queste variopinte decorazioni è presto detto: servivano a impreziosire il prodotto, a farne una cosa quasi da regalo, a renderlo più attraente quando veniva battuto all’asta nei mercati. E in occasione delle aste, nella sala di vendita venivano esposti i cosiddetti “cromi”, che erano delle vere e proprie locandine pubblicitarie.
I primi scacchetti che sono arrivati fino a noi risalgono all’inizio del Novecento ed erano naturalmente in bianco e nero. Poi si cominciò a fare lo stesso con le arance. A metterli in fila, questi scacchetti rappresentano una straordinaria narrazione per immagini della nostra storia, del nostro gusto, della nostra evoluzione sociale. La guerra di Libia del 1911-12 trova un puntuale richiamo in uno scacchetto della ditta Rocco Barbera: su uno sfondo di minareti, palme e nostri soldati avanzanti, in primo piano un bersagliere regge a due mani il tricolore sabaudo che una sorta di odalisca inginocchiata bacia devotamente. Tra il cappello piumato del bersagliere e i lontani minareti campeggia l’immancabile scritta “Uniformqualityfromn top to bottom”. Il tutto incorniciato da festoni di limoni. Ma altre ditte non esitano a riportare negli scacchetti materiali pubblicitari della Fernet Branca, della Bertelli, della Zenith, oppure sculture di Mario Rutelli o manifesti di Cappiello destinati ad altri prodotti. Alcuni scacchetti addirittura venivano appositamente stampati a seconda del paese nel quale era diretta l’esportazione, altrimenti non si spiega come, in Sicilia, ci fossero limoni chiamati Sant George, Wiliam Tell, Siegfried e Brunhilde.
Con l’avvento della stampa a colori, molti scacchetti, soprattutto quelli per le arance, s’apparentarono, per lo sfavillìo dei colori appunto, alla cassata siciliana. Comparvero persino decorazioni dorate. Chi non fu tentato di farsi una raccolta di scacchetti nel periodo del loro maggiore fulgore, verso gli anni Cinquanta? Io, personalmente, emigrato a Roma, arrivai a possederne un centinaio. Avevo uno scacchetto che credo rarissimo, non rappresentava niente, erano alcuni colori vivacissimi messi l’uno accanto all’altro a formare un disegno astratto. Ogni tanto, quando la nostalgia si faceva più forte, li mettevo in fila sul tavolo. Li guardavo e mi ritrovavo tra i colori e gli odori della Conca d’Oro.
Una ventina d’anni fa, ci condussi mia moglie. Dissi al tassinaro di seguire una certa strada che portava a una collina dalla quale si dominava la Conca. Poco prima d’arrivare alla sommità, pregai mia moglie di chiudere gli occhi. Appena capii che eravamo al punto giusto, dissi al tassinaro di fermare e a mia moglie di guardare giù. Lei guardò e mi domandò, un poco stupita, cosa c’era da vedere. Allora mi sporsi a guardare anch’io. Non c’era più un albero di limoni o d’arance. Solo una grigia distesa infinita di case.” (Andrea Camilleri)
“Così nasce la prima pubblicità”
Lo zio Sam in pantaloni a righe bianche e rosse, in giacca blu con le code, il tessuto ricamato di stelle, il volto alla Lincoln, due gambe da trampoliere, un piede in Sicilia l'altro in America. Il global di ieri, il global di oggi negli agrumi firmati "Lo Cicero Brothers. Paternò Oranges, Messina Lemons", cassette di frutta che viaggiano nella storia, nell'arte, nel design.
Si racconta di marchi, manifesti, vecchie réclame e packaging sempreverdi da fine Ottocento al 1940 i in From Palermo to America, un libro curato dall'antropologo Antonino Buttitta, da un dialogo:
“Professor Buttitta, Borges scriveva: «Il poetico si ritrova nei dettagli». Per trovare il poetico ha cercato i dettagli nelle carte che avvolgevano i limoni?
"L' esportazione dei limoni è cominciata proprio così. Prendevi un foglio, lo traforavi, lo dipingevi, toglievi il foglio, trovavi un quadro. I limoni venivano sistemati in queste veline. È una delle prime forme di comunicazione pubblicitaria, è il packaging di ieri: da un lato mostrava il marchio, dall'altro garantiva l'integrità del prodotto».
Per un mercato transoceanico “From Palermo to America”, come suggerisce il titolo della mostra?
«Sì, gli uomini di ieri consumavano simboli come quelli di oggi. La sfera simbolica di un prodotto suscita il pensiero mitico, per questo le immagini usano archetipi indigeni: il ciclope, il fauno, Diana, la sirena, san Giorgio, perfino Dante. Ma anche il carretto siciliano con i suoi rossi, i suoi gialli sfavillanti, oppure le gondole veneziane sul mare blu».
A ogni luogo di destinazione dei limoni corrispondeva un'immagine, un'icona che lo caratterizzava e rappresentava. Un'immagine che diventava pubblicitaria. È cosi?
«Sì, certo. Per l'America la Statua della Libertà, per l'Inghilterra il Principe di Galles e il suonatore di cornamuse, per l'Europa del Nord Guglielmo Tell o Brunhilde, per la Germania Sigfrido, per il Messico Zorro. E poi i temi universali: i bimbi, la purezza, il nudo, la natura, la coppia, l'amore, l'oriigine della vita».
Il libro riporta un frammento di 'AbdAr-Rahmàn, poeta musulmano: «Gli aranci superbi sembran fuoco ardente su rami di smeraldo. Il limone pare avere il pallor d'un amante che ha passato la notte dolendosi per l'angoscia della lontananza». Anche questo fa parte della storia simbolica del limone?
«La storia simbolica comincia molto lontano. In Sicilia la coltivazione degli agrumi viene introdotta dai Berberi nel Medioevo. I berberi erano islamici, venivano dal Maghreb. In Sicilia questa simbologia attraversa la cultura dei traforati, delle veline, dei profumi. Scriveva Floridia, studioso di agrumicoltura: "Tutto in questi alberi incanta gli occhi, soddisfa l'odorato, eccita il gusto e nutre il lusso e le arti"». (Ambra Somaschini – La Repubblica)
Liconografia commerciale degli agrumi di Sicilia
Stampini d’ottone, marchi come “Two crowns” per la prima scelta e “Twoasses” per la seconda, pizzi, scacchetti o fazzoletti di carta velina con i quali venivano avvolti i singoli frutti, frinze, addobbi o locandine, insieme a reperti d’altri tempi, tutto ciò faceva parte di quell’armamentario simbolico di cui si servivano i produttori d’agrumi per farsi riconoscere sulle piazze dei mercati esteri, dove per vendere grossi quantitativi di merce, esportata a grande distanza, si ricorreva all’asta così descritta in un documento della Pacific Rural Press americana: “Su una piattaforma ci sono il banditore e una mezza dozzina di impiegati, nella stanza 300 acquirenti (…). Ci sono uomini che distribuiscono assegni di 100mila dollari e persone che portano l’intero loro capitale in tasca, obbligate a pagare la frutta prima della consegna. La vendita procede con rapidità fulminante. (…) Entro due giorni dall’arrivo del vapore la frutta generalmente viene scaricata, venduta e portata via”.
Di qui la necessità avvertita dagli esportatori di agrumi di affiggere presso i locali degli spedizionieri e nelle sale d’asta ad Amburgo, Londra, New York, etc, le locandine stampate a colori, pensate allo scopo di farsi riconoscere dai potenziali acquirenti come produttori di merce pregiata, attraverso l’utilizzo di immagini di forza, amore o fecondità, come il leone e la tigre, Venere, presente nei manifesti di Giuseppe Tempra o di Ignazio Motisi, o la ripresa del tema biblico di Eva che porge il frutto ad Adamo e la reinterpretazione del motivo delle Tre Grazie, raffigurate nelle vesti di contadinotte, marinarette o signorinelle.
I poster recavano anche slogan ad effetto, come ad esempio “InsuperableQuality”, oppure «bestquality from top to bottom» (migliore qualità da cima in fondo) per dissipare il sospetto, talvolta non infondato, che nelle casse, sotto i primi strati di frutto, si celasse merce di qualità inferiore.
I limoni dello strato superiore, i cosiddetti «mustri», venivano avvolti non nella normale carta velina bianca, ma colorata e stampata con le marche dell’esportatore.
Gli ideatori delle locandine pubblicitarie ritraevano a volte personaggi familiari alla cultura del paese d’importazione, quando non tentavano persino un’inedita rielaborazione di fonti eterogenee dagli esiti un po’ più complessi. Brunilde e Sigfrido erano pensati per il mercato tedesco, così come Guglielmo Tell per quello svizzero e San Giorgio per l’Inghilterra; invece, le locandine che raffiguravano la Statua della Libertà, lo Zio Sam, George Washington e persino una giovane, avvenente pellerossa seminuda con copricapo piumato, languidamente seduta su una cassetta di agrumi, erano destinate al mercato statunitense, che era il più importante sbocco commerciale a partire dall’800, quando le prime casse di agrumi viaggiavano sui velieri.
A Palermo, i Florio e i Tagliavia si impegnarono nel settore delle esportazioni, e proprio Tagliavia utilizzò per la prima volta il piroscafo per spedire oltreoceano un carico di agrumi.
Emblematica del montaggio inedito delle fonti è la locandina “From Palermo to America” della ditta dei Fratelli Lo Cicero: lo Zio Sam ha la fisionomia e la corporatura ossuta e dinoccolata di Abraham Lincoln che compie il balzo da gigante, ad imitazione della lunghissima falcata che un’illustrazione satirica del tempo attribuì al sedicesimo presidente degli U.S.A. in occasione della vittoriosa campagna elettorale del 1860. Il passo lunghissimo dello Zio Sam, vestito a stelle e strisce, unisce i luoghi simboli delle due città di Palermo e New York, vale a dire il Monte Pellegrino e il Flatiron Building, colmando idealmente la distanza oceanica, al pari del presidente Lincoln capace di superare distanze di ogni genere e di abbattere barriere e steccati. Meno intuitivo invece il significato del bastone da passeggio impugnato al contrario come una mazza da golf, ma soprattutto contraria alla logica commerciale – secondo Sergio Troisi, autore del saggio in questione – è l’idea che sia proprio la personificazione patriottica degli Stati Uniti a muovere il passo che scavalca l’oceano, partendo da Palermo per riportarne un ramo carico di limoni come souvenir.
Antico manifesto pubblicitario di “Giovanni Di Cola” (Proprietà di Giovanni Teresi)
Bibliografia: “From Palermo to America” – Autori: Antonino Buttitt, Salvatore Lupo, Sergio Troisi - Editore Sellerio, 2007