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 Il giornalista pugliese Giuseppe Di Matteo torna in libreria con ‘Meridionale, che scava, in versi, nell’anima del Sud 

 

di Sergio Melchiorre

 

 

Giuseppe Di Matteo (Bari, 1983), giornalista professionista, è addetto stampa della casa editrice Paginauno e collabora con QN.

Ha lavorato a Sky TG24, Il Giorno, Telenorba e la Gazzetta del Mezzogiorno.

Nel 2019 ha pubblicato Frammenti di un precario (Les Flâneurs Edizioni), nel 2020 Cronache quotidiane (sempre per Les Flâneurs) e nel 2022 Il 1799 in terra di Bari (Adda Editore).

 

Lo scorso 25 gennaio il giornalista pugliese Giuseppe Di Matteo ha pubblicato il suo ultimo libro di poesie: Meridionale – Frammenti di un mondo alla rovescia, edito da 4 Punte edizioni e illustrato da Mario Pugliese.

«L’occhio di Giuseppe Di Matteo è onesto e sa riconoscere anche i ritardi e le inerzie del suo Meridione di provenienza. Egli non scrive “Meridionale” per aderire a un meridionalismo del pianto. Al contrario, reagisce con veemenza e criticamente, trovando nei persistenti divari l’impulso generatore della sua scrittura poetica, riconoscendo al Sud Italia di esser solo un tassello dell’anagrafe ampia dei “Meridioni” del mondo».

 

Così Alessandro Cannavale nella prefazione a Meridionale. Frammenti di un mondo alla rovescia (4 Punte edizioni), composto da numerose liriche ermetiche che lambiscono con delicatezza la sensibilità di chi legge. Come le ali di una farfalla in volo, i versi di Di Matteo sfiorano l’anima del lettore generando spunti di riflessione in grado di scalfire la coscienza umana.

Della meridionalità dell’autore in questa silloge c’è tanto: la sua amata terra rossa, i suoi ulivi, il suo mare, insomma la sua Puglia; ma c’è anche l’immagine della meridionalità legata alla precarietà e, soprattutto, il concetto, su cui vale la pena di soffermarsi, dei “nuovi meridionali”: uomini dalla pelle nera, migranti e precari. L’essere meridionale, in altre parole l’essere figlio di una sofferenza condivisa, è un dolore atavico, che per l’autore si sublima in un forte senso di “appartenenza” che custodiamo nel profondo dei nostri pensieri, nel nostro animo e nella ricerca continua di un riscatto sociale.

Tutto questo Di Matteo lo fa con le armi che gli sono proprie, ossia “le mani nude della poesia”.

 Scrive Dacia Maraini che «l’originalità di un poeta non consiste in quello che argomenta razionalmente, ma nel passare attraverso le strette fessure della realtà per cogliere i lampi della sua luce nascosta. [Il vate scava] setacciando la terra nera e anonima, per raggiungere quei piccoli grumi di oro che [vuole] mostrare al mondo».

 Di Matteo è alla ricerca tormentata di quel “piccolo grumo” d’oro capace di aprire uno spiraglio di umanità nel cuore degli uomini, sempre più disumanizzati da un progresso inglobante, devastante e camaleontico.

Il poeta diventa metaforicamente un cercatore d’oro che trova, dopo aver febbrilmente dragato gli oscuri meandri della psiche umana, il tesoro più prezioso dell’universo, che anima lo spirito antropico, e lo regala alla sensibilità di chi ancora crede nella solidarietà e nella fratellanza.

 

Ha la pelle nera

il Meridionale di quest’era.

Un alito di sale

le mani orfane di mezzo pane.

Dopo l’ultimo orizzonte

scruta senza fine

la riva più lontana del nostro cuore.

 

I nuovi Meridionali sono i migranti che attraversano il Mediterraneo con le carrette del mare:

 

Migrante solitario

in quest’Italia

che spegne le luci

dell’amore cristiano.

 

L’autore denuncia, attraverso la “poetica del frammento”, l’ipocrisia umana e, soprattutto, l’imbarbarimento che caratterizza la nostra società, suffragando così le parole di Papa Francesco, secondo il quale «i migranti sono nostri fratelli e sorelle che cercano una vita migliore lontano dalla povertà, dalla fame, dallo sfruttamento e dall’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta, che equamente dovrebbero essere divise tra tutti».

 

Per prima cosa

gli abbiamo tolto il nome

mentre il corpo già era mare.

 

La lirica, dedicata ai migranti che muoiono in mare, fa vibrare le corde più sensibili della nostra coscienza.

In tre versi, il giornalista pugliese denuncia l’insensibilità di una società che non dà più valore alla vita e gira la testa dall’altra parte, assistendo impassibile al più grande olocausto dell’era moderna.

 

Clandestino

nel mare che bagna

l’inferno.

 

Il paradiso così agognato dai migranti, spesso nascosti nelle stive delle petroliere, diventa l’inferno, perché appena sbarcano in Occidente si accorgono d’essere arrivati in un mondo per loro sconosciuto, ostile e talvolta razzista.

 

Il colore della pelle

è un altro muro del Pianto

di chi abbiamo imparato ad odiare.

 

Non a caso, Di Matteo puntualizza: «La mia poesia, nasce da un’urgenza interiore figlia di uno sguardo sul mondo. Vuole essere d’impegno civile. Ma è anche piacere della scoperta, soprattutto delle parole. Che possono celare una forza straordinaria».

 

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