L’opera, vincitrice del premio Strega nel 1963, anno della prima edizione del romanzo per la casa Editrice Einaudi, è la storia della famiglia della scrittrice Natalia Ginzburg, nata Levi, ebrea da parte del padre e cattolica per madre, ambientata a Torino nel periodo tra il 1930 e il 1950. Attraverso una sorta di monologo interiore, un indiretto libero, l’autrice ricostruisce i ricordi della sua famiglia, le vicende e le abitudini della sua infanzia trascorsa nella città piemontese: le vacanze con i suoi fratelli e i loro giochi; il sopraggiungere dell’età adulta con i figli da proteggere dalla guerra e dalle persecuzioni; il padre, Giuseppe Levi, professore universitario burbero, un po' dispotico ma nello stesso tempo “paterno e affettuoso”; la madre Livia, vivace e allegra; la frequentazione con noti intellettuali e politici della Torino antifascista, come: Turati, Olivetti, Pavese, Montale (per citarne alcuni). Una frequentazione ravvicinata e costante se si considera, ad esempio, che Olivetti sposerà la sorella maggiore della scrittrice e Drusilla Tanzi, “Mosca”, la donna tanto amata da Montale, è la zia di Natalie (la sorella della madre). La Ginzburg nel suo romanzo racconta non solo la storia del proprio ambiente familiare ma anche la “storia”: l’ascesa di Mussolini, le leggi razziali, la lotta antifascista, la morte del primo marito Leone Ginzburg, arrestato e ucciso nel ’44 fino agli anni ’50 quando l’amico Cesare Pavese si suicida.
Recensione
L’occasione per rileggere questo romanzo è scaturita dalla partecipazione ad un evento letterario in rete che ha rinnovato il mio interesse per il testo. Affrontarne nuovamente la lettura, a distanza forse di venti anni, con una maturità differente, mi ha consentito di cogliere aspetti che mi erano sfuggiti in precedenza; aspetti legati, non solo ai contenuti narrati, ma anche al modo con cui vengono espressi attraverso il particolarissimo stile della Ginzburg.
Tacciata di aver scritto una sorta di biografia in stile propriamente femminile, da “scrittrice” che può solo parlare, in quanto donna, di sentimenti ed emozioni di nicchia, da chiuso domestico, da romanzo “rosa” di appendice e osteggiata, per tale motivo, dalla critica intellettuale del tempo, la Ginzburg attraverso l’uso del “lessico quotidiano”, di parole ed espressioni tipiche del gergo di un ambiente famigliare (come lei stessa sottolinea nel titolo – la parola “famiglia” nettamente identificata nell’aggettivo e non “familiare” che evoca, invece, qualcosa di genericamente collegato, similare al nucleo originario); con l’uso preciso dei nomi e cognomi dei personaggi che sono reali, non d’invenzione (gli uomini e le donne che hanno attraversato la sua esistenza) la Ginzburg realizza un’indagine interiore che diventa “esterna”, cioè cronaca, spaccato storico e sociale di quel tempo giungendo, in realtà, ad ogni tempo e persino a questo tempo presente.
Se, infatti, la realtà storica trattata nel romanzo è per alcuni aspetti mutata, per altri ne è rintracciabile la persistenza nelle discriminazioni legate alla razza, alla religione, nella differenziazione economica e sociale fra uomini e donne, nella violenza generalizzata, negli episodi ricorrenti di femminicidio fino ad arrivare a quest’oggi “sospeso”, in cui il concetto di famiglia ritrova, forse, l’originario autentico: essa rappresenta il perno, l’ancora che assicura la permanenza in acque meno agitate, l’elemento di unione in una società che ha perduto ogni possibilità di aggregazione e di contatto.
Lo “scrittore”, come lei stessa si definiva opponendosi allo stereotipo del termine scrittrice, all’aggiunta di un suffisso che sembrava determinare una differenza qualitativamente inferiore per genere, quasi uno “stigma”, diventa allora colui che può, attraverso la narrazione del quotidiano, giungere ad affermare l’universale. Poiché la narrazione della verità passa attraverso “le piccole cose”, le piccole virtù (come dice la Ginzburg nel libro omonimo -che consiglio di leggere).
La verità va oltre, superando se stessi per giungere alla trasparenza di quel “vero”, che assurge a valore universale, al di là di ogni tempo, in un rapporto diacronico fatto di sincronie intellettive e morali.
Autore: Luisa Di Francesco-Taranto