di Franca Amono
Aprigliano è un paese situato alle falde della Sila e dista da Cosenza circa 13 chilometri.
Ha un’estensione di 121,27 kmq. Confina con i comuni di Cellara, Figline Vegliaturo, Santo Stefano di Rogliano, Piane Crati, Cosenza, Pietrafitta, San Giovanni in Fiore, e con Cotronei e Taverna in provincia di Catanzaro.
Rispetto all’estensione, Aprigliano è poco popolato, a causa delle migrazioni in altri paesi. Ha frazioni centrali collinari : Grupa, Guarno, Corte ,Santo Stefano, Petrone, Agosto, Vico, San Nicola; e vllaggi silani:
Quaresima, Barracchella, Pino Collito, Cappello di Paglia, Caporosa e Spineto.
Essendo per metà un paese di collina e per metà di montagna, Aprigliano offre una varietà di paesaggi di incredibile bellezza. Si passa dai centri
foto di F. Amono
storici antichissimi ai castagneti, a luoghi di grande interesse paesaggistico per flora e fauna, come il Parco Lardone dove si trovano due casolari ristrutturati da non molto tempo, circondati da alberi secolari: sequoie, abeti rossi, abeti bianchi e un tasso, detto albero della morte per via di un alcaloide velenoso, contenuto nelle sue foglie; inoltre vi è un laghetto, costruito nel 2000 per le emergenze degli incendi boschivi, che è alimentato dalla sorgente Acqua di Pirito, e nelle sue acque di colore verde come gli alberi che lo circondano, guizzano tanti pesciolini.
Laghetto Parco Lardone (foto di F.Amono)
Salendo, si passa poi ai mozzafiato paesaggi montani e lacustri. Ricadono in territorio apriglianese, infatti, il lago Arvo e il lago Ampollino.
Lago Arvo -località Quaresima
(foto di Lory Tancredi)
Lago Ampollino -località Spineto foto di Lory Tancredi
L’anno scorso proprio nel suggestivo territorio silano del Comune di Aprigliano presso Quaresima sono state girate scene del film Padrenostro con Pierfrancesco Favino, al quale è stata assegnata in seguito, la Coppa Volpi alla Mostra cinematografica di Venezia.
Oltre alla bellezza dei suoi luoghi, Aprigliano vanta un gran numero di persone di un certo livello culturale, tra cui numerosi poeti.
Il mio Paese è considerato la culla della calabra poesia. Ha dato i natali a: Domenico Piro, detto Duonnu Pantu; Ignazio e Giuseppe Donato; Carlo Cosentini; Pirro Schettini; Luigi Gallucci; Vincenzo Maria Filippelli; Raffaele Lucente; Liborio Vetere; Angelo Piro e tanti altri, tra cui molti contemporanei.
Domenico Piro, meglio conosciuto come Duonnu Pantu, è il primo autore a dare dignità poetica al dialetto calabrese. Sacerdote, fu più volte sospeso a divinis per i suoi versi e per la sua condotta, insofferente di ogni autorità e di ogni ipocrisia. Vissuto nel 1600,
Duonnu Pantu vive le contraddizioni e le sollecitazioni ambigue del suo tempo, le fa sue e le manifesta nei suoi versi, così come anche i sentimenti dell’animo popolare, e le sue fantasie diventano elementi di dissacrazione umoristica da contrapporre al potere.
Il ‘600 è il secolo della controriforma e del controllo ecclesiastico verso ogni innovazione di pensiero, repressioni e controlli che lasciano l’Italia in una drammatica situazione tra riforma e controriforma, dramma che nell’Italia meridionale è ancora più vivo e dolente, dove le repressioni sono massicce e risentono di una cultura chiusa nel proprio provincialismo. La censura adoperata nei confronti di poeti, filosofi (Bernardino Telesio, Tommaso Campanella) e studiosi era sempre incombente.
In questa cornice di condizionamenti e repressioni si manifestano controtendenze, in Calabria, in special modo, mi riferisco al fenomeno Duonnu Pantu.
Il sacerdote Pantu trova nella sessualità, irrepetibilmente ironica, la sua indipendenza di pensiero; la sua poesia non ammette ipocrisie o falsi pudori, è strumento di tensione intellettuale e morale, ma mai di comodo moralismo di facciata; è una fiammata di sconcertante genialità e di radicale contestazione di una società e di una cultura, che non può esprimere di vitale più niente.
Secondo alcuni la poesia di Duonnu Pantu è immorale.
“Duonnu Pantu non fu un corruttore, perché non fu corrotto. Semmai corrotto è colui che si avvicina alla sua poesia con il proposito immorale di trovare in essa una sorta di “paradiso artificiale” per il suo sfrenato desiderio di piaceri carnali”.
La poesia di Pantu è una poesia burlesca, dedicata a “zierti amici”, sorta nel firmamento della “meraviglia”, senza intenzioni boccaccesche, destinata a rimanere inimitabile nell’uso del dialetto.
La sua lingua è certamente molto realistica, però la crudezza di certe parole facevano parte di diffuse forme linguistiche popolari. Nei versi non ci sono eufemismi e metafore, ma ogni cosa è chiamata col suo nome, quasi come reazione al dolciastro e finto, che dilagava nella letteratura aulica del ‘600.
Il suo canto è quasi una denunzia della corruzione di quel secolo; non è immorale, perché crediamo nell’aristocrazia interiore del suo autore. Il suo linguaggio è quello quotidiano, nudo, gagliardo del casalino di Aprigliano.
Le sue opere principali sono: “La briga de li studienti”; “La Cazzeide”; “La Cunneide”; “Lu Mumuriale”; “Pruvista” e i seguenti sonetti: “Segnure ‘Ncischiu”; “Jisti a de Pinnu”; “Quarant’anni de cunnu”; “Canzuna”.
Mi sembrano molto attuali i versi della “Canzuna”:
Fratimma dice ca nun vale l’uoru,
ca ccu lu litteratu nun cc’è paru;
io lu vorra trovare nu trisuoru
ppe dire bonanotte a lu livraru!
Ca sette savii de la Grecia fuoru
e tutt’i uottu de fame creparu.
E si campu n’autru annu e si nun muoru,
o chianchieri me fazzu o tavernaru.
Ignazio e Giuseppe Donato, egregi preti, furono anch’essi autori di pregiate poesie in dialetto apriglianese.
Carlo Cosentini nacque e visse in Aprigliano, frazione Corte tra il XVII e il XVIII secolo. Tradusse in dialetto apriglianese la Gerusalemme Liberata del Tasso. Visse amareggiato dall’infedeltà della sua bella moglie sedotta dal Principe di Bisignano, del quale egli era governatore. Per questo motivo aveva rinunciato al posto, abbandonando la bella e infida consorte, e si era ritirato nel villaggio nativo, dove trovò conforto negli studi e nello scrivere. Sono celebri tra gli apriglianesi questi due versi:
“ E ppe na donna Carru Cusentinu
ridere nun s’è vistu cchiù ad Apriglianu”.
Pirro Schettini nacque ad Aprigliano, frazione Petrone, il 18 dicembre 1630, dal dottor Flavio e dalla signora Caterina Petroni. Fu battezzato nella stessa frazione, nella chiesetta oggi dedicata a Santa Lucia.
Da giovanetto studiò a Cosenza presso il collegio dei Gesuiti, dove apprese il latino, il greco e altre discipline. A quindici anni, per il talento manifestato, fu mandato a compiere i suoi studi presso l’Università di Napoli. Il padre voleva che seguisse le sue orme e diventasse avvocato, ma egli, attratto dalla letteratura, cominciò da giovane a scrivere madrigali e sonetti, secondo lo stile del Marino. In un secondo momento, però, abbandonò lo stile della poetica edonistica del Marino, e si avvicinò fortemente al Petrarca.
Durante la sua vita fu tormentato da amori e passioni impossibili. Nel 1668 fu nominato Principe dell’Accademia Parrasiana di Cosenza, riportandola al suo antico splendore. Negli ultimi anni della sua vita vestì l’abito sacerdotale. Poiché voleva togliere dal suo animo tutto ciò che non fosse sacro, quasi che la fama, che dai suoi componimenti era sorta, gli apportasse vana gloria, non solo non scrisse più nulla, ma bruciò, e chiese agli amici di bruciare le sue opere, di cui erano in possesso. Dopo due anni di malattia morì all’età di 48 anni.
Fu autore di molti sonetti dedicati alla donna amata e ai luoghi a lui cari. Dai suoi sonetti emerge un vivo sentimento di dolore e di sconforto:
“Or che più chiaro e più ridente il Sole
ne riconduce la stagion fiorita,
il mio tristo pensier, pur come suole,
quand’altri ride a lacrimar m’invita […]
Lasso, quanto son brevi i dì del riso! […]
Per tormi dal gioir bastò un momento,
ma per tormi da voi (dagli affanni) non bastan gli anni.”
Luigi Gallucci, nato l’11 aprile del 1787, si distinse come medico e come poeta dialettale. Scrisse versi con una spontaneità ammirevole. Tradusse un canto della Divina Commedia in dialetto apriglianese. Tra i suoi versi ricordiamo “Lu Capurale”; “Suennu poeticu”; ecc.
Vincenzo Maria Filippelli nacque il 14 ottobre 1836 nella frazione Corte.
La personalità poetica di Vincenzo Filippelli è una delle più rilevanti del romanticismo dialettale calabrese, ma la sua produzione lirica era andata dispersa tra vecchi documenti in varie case di Aprigliano. Il grande merito di avere raccolto, con paziente lavoro di ricerca, fatto casa per casa, l’inestimabile patrimonio artistico, spetta a Francesco Quattromani, il quale ha ricostruito la vita del poeta, documentandosi nell’archivio del Comune, in biblioteche pubbliche e private, e ascoltando testimonianze fornite da cittadini apriglianesi, tramandate loro dai genitori o da persone anziane.
Tra le numerose poesie, rinvenute , ricordiamo: “Aprigliano”; “’U Capillu”; “Viju tri stilli”; “Lacrime amare sulla bara di Pietro Cribari”; “Lu surice pantuocchiu”; “La farsa in cinque atti: Diego Mazza”.
Merita di essere annoverato tra i poeti apriglianesi, Raffaele Lucente, di nobile famiglia. Nacque ad Aprigliano il 20 settembre del 1817 da Nicola e da Rachele Capocasale.
Studiò a Napoli e divenne notaio. Visse con viva partecipazione ed entusiasmo la stagione di grande impegno liberale casentino, e fu uno degli animatori delle riviste “Avanguardia” e “Sinistra”, entrambe ispirate al movimento politico del Depretis.
Il Lucente fu un personaggio importante, se è vero, come è vero che il principe Luigi Luciano Bonaparte e il Biondelli, suo collaboratore in Italia, affidarono a lui la traduzione del Vangelo di San Matteo in dialetto calabrese. Scrisse, tra l’altro, il sonetto “Cantu ‘ncalavrise ad unure de la Virgine S. De Lu Pilieriu”.
(da “Il Vangelo di S. Matteo volgarizzato in dialetto calabrese cosentino da Raffaele Lucente” a cura di Oscar Lucente)
Liborio Vetere fu un altro poeta apriglianese, nato nella frazione Vico, e vissuto nel ‘700. Scrisse “Vari componimenti poetici”.
Angelo Piro è uno degli ultimi poeti dialettali del nostro Paese. Vissuto nel ‘900, si inserisce a pieno diritto nella luminosa scia della poesia d’arte calabrese, che ebbe culla in Aprigliano. Scrisse “’U fusu e la cunocchia”, una raccolta di poesie di vario argomento, in cui rivela una notevole facilità del verso, unita all’abilità pittorica nella descrizione di angoli del suo paese.
Attualmente vivono in Aprigliano altri poeti dialettali e in lingua italiana. Saranno all’altezza dei poeti di cui vi ho parlato finora?
“Ai posteri l’ardua sentenza!”.
Nella copertina: scorcio panoramico di Aprigliano
(foto di F.Amono)