PORDENONE - L’ultimo libro di poesia di Alessandro Canzian, Il Condominio S.I.M., evidenzia uno sguardo in qualche misura espressionista sulla vita, in cui “l’urlo”, declinato in tutte le sue sfumature è trait d’union fra i vari personaggi e rappresenta l’estrinsecazione più autentica degli individui che entrano in scena, tutti accomunati da un’esistenza vissuta al limite dell’assurdo, dell’insensatezza, del disincanto mal celato.
I condomini paiono individui privi di centro, personalità ondeggianti, irresolute, suggestionabili, morbosamente attratte dalla vita, tuttavia incapaci di vivere appieno.
Olga esiste in quanto pensata dal narratore di questa storia in versi, secondo la lezione del “cogito ergo sum” di Cartesio, il quale afferma che quanto percepiamo in modo chiaro e distinto è vero, e anche Olga, concepita nella mente dal narratore, lo è. Ha “il seno grande”, dettaglio che assume una rilevanza particolare nella descrizione della donna e sembra determinarla in modo esasperato, distorcendone quasi l’immagine. L’autore racconta: “l’ho sentita urlare / appesa alle mani di qualcuno” e in questa immagine riesce a dirci in modo mirabile come Olga cerchi così l’oblio alla miseria della propria esistenza e anche a se stessa.
Molto interessante è l’uso che Canzian fa dell’enjambement in tutto il suo libro: “Il nome non ha importanza / nel trascorso del racconto, il / dolore è pari al suo piacere”. Lo scopo non è quasi mai quello di prolungare il verso in liaison con il successivo, ma di spezzarlo, di infrangerne drammaticamente il ritmo per rendere evidente la frammentazione interiore dei personaggi in scena e dell’io lirico stesso, che è ben evidenziata “nelle fessure” di Olga, le quali rimandano a quelle ferite profonde che la vita lascia, mai del tutto sanate, ma attraverso cui, a volte, può anche entrare la luce.
Olga “Balla coi piedi scalzi, lo / smalto rosso e un’unghia rotta. / La vita ritirata come un ragno”: l’unghia rotta, l’imperfezione esteriore è correlativo oggettivo di una disarmonia interiore e l’immagine del ragno rimanda a un inconscio oseremmo dire kafkiano. Ad accentuare il tutto in questi versi è l’allitterazione della “r”, che diventa elemento distorsivo anche sotto il profilo del suono.
Nell’opera di Canzian va in parte superata la propettiva puramente esistenziale e intimista per sottolineare forse anche una certa intenzione di critica sociale. Partendo da una prospettiva psicanalitica si può evidenziare come certi effetti umoristici e ironici che si creano in questo libro siano inestricabilmente legati ad una visione di questo tipo.
Nel modello freudiano il Witz è uno di quei fenomeni che seguono un percorso ben preciso all’interno dell’economia psichica soggettiva. Si tratta di una formazione dell’inconscio, la cui funzione è quella di una sorta di scarica energetica che avviene tramite il “disvelamento” del materiale inconscio rimosso. Nel saggio del 1905, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, Freud spiega che nel non-senso della battuta rappresentazioni diverse vengono condensate in un’unica espressione che ha come effetto il rilascio di quell’ energia che altrimenti sarebbe stata impiegata nella repressione e nella censura del materiale inconscio: il Witz, il sogno, l’opera estetica, scavalcano le resistenze del pensiero rappresentativo cosciente, rivelando il rimosso e possono assumere perciò stesso un valore sociale e produrre un effetto di senso ulteriore. Nell’opera di Canzian più che il senso del comico, tuttavia, riscontriamo una intensa vena umoristica che, come afferma Freud nel saggio Der Humor del 1928, ride del principio di realtà, delle inquietudini che attraversano l’Io, ma è un riso diverso da quello del motto di spirito, in quanto il Super-io ha qui una funzione difensiva, di protezione dall’angoscia; il riso è, diremmo, più simile a un sorriso amaro.
Tra le inquietudini che permeano l’uomo ritroviamo in queste poesie il senso del tempo che trascorre inesorabile e vuoto. Il grigiore della quotidianità toglie la voglia di vivere, consuma, conduce l’individuo a perdere contatto con se stesso. Olga urla durante l’amplesso anche perché in quell’urlo riesce a riconoscersi ancora in vita.
Anche la solitudine e l’incomunicabilità si evidenziano come elementi caratteristici nelle vite dei vari personaggi, perché il condominio non è nient’altro che un microcosmo.
“Le ragnatele nell’armadio” di Olga richiamano un po’ lo scarafaggio kafkiano e quando ritorna a casa questa si trasforma quasi in un bozzolo protettivo. Il suo farsi “ragno” rappresenta lo stato di frattura con il mondo esterno che non la comprende. La sua metamorfosi è una ribellione, per quanto passiva, verso quanto la vita porta con sé di ingiusto, di inaccettabile sul piano della dignità umana, così come lo scarafaggio corrisponde per Kafka alla triste e squallida routine della razionalità quotidiana.
In Carlo “tutto ciò che è trattenuto / alla fine esplode” nel sogno grazie alla sua funzione psicanalitica di rimozione. Anche per lui ritorna l’amara constatazione di un’esistenza spesso priva di senso e così “butta / le immondizie la sera, come / la vita, una volta alla settimana”. Carlo attraverso i fazzoletti che lascia sparsi per casa, pregni di lacrime o dei suoi umori, racconta la propria storia, lascia un segno tangibile di sé. I libri sono l’unica presenza di senso in una casa vuota di vita, piena di lattine che tradiscono il vizio di bere, sintomo evidente del suo malessere esistenziale. “Misurano cinque passi le sue / felicità – se si può parlare / di felicità quando si hanno / i calzini sporchi e gli occhi / bucati, dall’ultima lavatrice-“: la felicità è fatta di attimi che si perdono nel buio dell’inconscio e l’occhio bucato richiama l’oblò della lavatrice con un effetto espressionistico di reminescenza pascoliana (“l’occhio esterrefatto”), con un evidente effetto di deformazione della realtà.
L’individuo è isolato dallo sguardo del poeta nella sua incolmabile solitudine e transitorietà: “gli uomini amano l’effimero, ciò che esiste e poi scompare. / Non siamo fatti per restare” e, nella sospensione che contraddistingue l’esistenza, “è inutile attendere l’attesa”.
Carlo vive una vita come anestetizzato, incapace di sentire sia il bene che il male, in una superficiale medietà che diventa opprimente grigiore: “in attesa / di qualcosa che non passa. / I giorni lunghi del male / non li ha nemmeno sentiti “ e la vita vera è oltre.
“Anna ha un amore / sconfinato per se stessa” tuttavia “cammina spesso / di notte nella stanza. / Conta i passi ticchettando / l’intonaco dei giorni” perché anche la sua vita è insoddisfacente e banale come l’intonaco bianco di una parete e qualcosa nel suo intimo la tormenta. Nella sua borsetta Anna porta “un pacco di cerotti per / quando ci si fa male nella vita”, ma a volte grida la sua rabbia, il suo dolore. Poi però parla come se niente fosse, cerca di nascondere il vuoto che ha la forma della mancanza e in realtà non si può dissimulare.
Anche i bambini urlano, come gli adulti del palazzo: nel gioco si allenano a diventare grandi.
Giulia: “è bizzarra questa Giulia che / guardo ma non conosco. / Le calze scure, i tacchi / appena un poco alti e / i capelli arricciati come polvere. / Giulia oggi è un melograno.” Rappresenta l’incapacità di comunicare che caratterizza gli odierni rapporti umani (“come quando ci si deve incontrare ma non si riesce”) e l’impossibilità di poter conoscere e comprendere appieno qualcuno perché gli uomini sono misteri anche a loro stessi (“È altrettanto terribile capirla totalmente”).
Silvio “non sapeva / che ogni passo è una caduta”, non era pronto ad affrontare la vita costellata di ostacoli e non riusciva a prendere le distanze da un amore insano. Un inetto, che “urlava” la sua mancanza di volitività. “Il tempo che ci è dato / non coincide con la vita” che per Silvio è trascorsa deludente e mediocre, incapace com’è stato di instaurare un vero rapporto con la propria donna poiché non riusciva a entrare veramente in contatto nemmeno con se stesso.
Alberto ha due figli, ma solo uno va a trovarlo: attraversare l’uscio di casa sua significa perdonare i suoi errori e comprendere che un uomo può chiedere scusa senza mai riuscire veramente a farlo. Anziano e vedovo ha vissuto le molteplici esperienze di un emigrante, dopo quelle di giovane assetato di vita, ma ha fallito nei rapporti familiari, come padre, e con la moglie ha convissuto condividendo tutto ciò che c’è di quotidiano, ma niente di davvero intimo.
Alina, la donna che fa le pulizie nel condominio, “direbbe che sono giovane / e non so che siamo tutti uguali / chiusa la porta di casa”, afferma il narratore, toccando il punto focale del racconto sul condominio che mette in luce come tutti gli individui si dibattano negli stessi errori e problematiche. Alina “sa che / è sempre bagnato da qualche parte / e non si può tornare indietro”: ha la saggezza di chi ha vissuto una vita che non ha regalato nulla.
Aldo vive in uno degli appartamenti più piccoli, di solito destinati agli immigrati “come / chi è stato buttato fuori casa” dalla moglie che ha tradito. “Ha un odore buono, Aldo, / di vent’anni di matrimonio e / un’amante che gli voleva bene.” La sua figura ci riporta a un’amara realtà, quella del fallimento del matrimonio, sempre più diffusa, che si abbatte sugli uomini strappandoli da una quotidianità monotona e rassicurante.
Il “mondo è uno, uno e uguale”: così conclude il narratore la storia, questo spaccato di vita che si delinea come una sorta di geografia interiore.
Le poesie trovano unità strutturale nella cornice che è costituita proprio dal condominio e nei temi che accomunano le diverse storie. Il linguaggio è volutamente piano, narrativo, ma caratterizzato da un ritmo fortemente spezzato in cui trapela la tensione emotiva sottesa.
E’ libro da leggere e meditare con attenzione, che coinvolge per la sua verità e aderenza alla vita, condizione questa ineludibile affinché si possa parlare di vera poesia.