di Paola Cecchini
Aleksandr Puškin (Mosca, 1799- San Pietroburgo, 1837) ha sempre goduto in Russia di uno status speciale, dato che è considerato il fondatore della lingua letteraria contemporanea. Le sue opere - tra le migliori manifestazioni del romanticismo russo e le più importanti espressioni della letteratura nazionale- hanno ispirato numerosi scrittori, compositori e artisti: nonostante i quasi due secoli passati dalla loro creazione, ci presentano una lingua viva ed attuale.
E’ difficile per noi occidentali capire cosa Puškin abbia di tanto speciale e soprattutto di specificamente russo: in tanti preferiamo Dostoevskij e Tolstoj, così analitici e viscerali.
Ai nostri occhi Puškin è, insieme a Gogol’, forse il meno psicologico degli autori di quel Paese: non indaga più di tanto le emozioni, ‘offre gli eventi bell’e pronti, quasi scevri da ogni convulsione interiore’. Col suo stile laconico, è invece considerato un grande indagatore della realtà umana: pare per lui più interessante ‘quel livello dell’esistenza dove il caso non appare un evento venuto da fuori, ma si sintonizza con necessità profonde della personalità inconscia’.
Pubblicato nel 1834 ‘La dama di picche’ è ritenuto il punto più alto della sua narrativa: assistiamo increduli alla parabola di un uomo che, del tutto ignaro di se stesso, ‘si consegna al proprio principio oscuro, senza lasciarsi vie di scampo e con la complicità di coincidenze esterne’.
Oltre all’indubbio pregio letterario, il testo racconta il predominio prettamente romantico dell’irrazionale su ogni pretesa assoluta di comprensione della ragione ed i numerosi riferimenti alla numerologia, alla cabala e alla massoneria, tutti interessi coltivati da Puskin nella vita reale.
In particolare, la sventurata storia di Hermann è letta anche come la metafora di un rito d’iniziazione massonico, fallito a causa dell’incapacità dell’aspirante adepto di procedere pazientemente per gradi e di mantenere inviolato il segreto.
Il racconto vanta varie trasposizioni musicali : ad opera di Fromental Halévy nel 1850, di Franz von Suppé nel 1865 e da Pëtr Il'ič Čajkovskij su libretto del fratello Modest Il'ič nel 1890.
Nel 1887 il Compositore (Kamsko- Votkinsk, 1840- San Pietroburgo, 1893) ricevette da Ivan Aleksandrovič Vsevoložskij (direttore dei Teatri imperiali di San Pietroburgo) la proposta di mettere in musica il racconto di Puškin, di cui aveva già musicato Evgenij Onegin dieci anni prima.
Affaticato dalla stesura del balletto La bella addormentata, soltanto all’inizio del 1889 decise di partire per l’Italia (Firenze e Roma) per dedicarsi alla partitura.
La prima dell’opera ebbe luogo il 19 dicembre 1890 al Mariinskij di San Pietroburgo diretta da Eduard Napravnik cui seguì un immediato, entusiastico successo.
Entrata nel canone della cultura russa, l’opera fu oggetto di uno dei primi esperimenti registici di trasposizione in tempi moderni, operato nel 1937 da Vsevolod Mejerchol’d al Teatro Maly della stessa città.
Il Teatro alla Scala vanta nel 1906 la prima rappresentazione italiana dell’opera: fu diretta da Leopoldo Mugnone con la regia di Bruno Bruni.
La prima rappresentazione in lingua russa avvenne nel 1964 durante la tournée del Teatro Bol’šoj: in quell’occasione Konstantin Simeonov diresse Galina Višnevskaja, Zurab Angiaparidze, Vladimir Valajtis e Irina Arkhipova (regia di Boris Pokrovskij).
La versione russa fu affrontata nel 1990 con uno spettacolo eccezionale tra cui spiccavano Mirella Freni e Seiji Ozawa (direzione di Seiji Ozawa, regia di Andrej Konchalovsky). Le scene furono dominate dagli enormi lampadari di Ezio Frigerio ed i costumi firmati di Franca Squarciapino.
L’opera - diretta da Yuri Temirkanov- fu in seguito rappresentata al Teatro degli Arciboldi nel 2005.
Finalmente dopo 17 anni, il 23 febbraio scorso, ‘La dama di picche’ è tornata al Piermarini (repliche fino al 15 marzo).
Com’è noto, il direttore Valery Gergiev è stato sostituito per la vicenda della guerra russo-ucraina e sul podio è salito Timur Zangiev (uno dei suoi assistenti), direttore ospite del Marinskij di San Pietroburgo, direttore dell'Accademia Stanislavsky e del Teatro musicale Nemirovich-Danchenko di Mosca.
Il giovane Zangiev (1994) - che aveva sostituito Gergiev in buona parte delle prove dato che il direttore era risultato positivo al Covid ma non aveva mai diretto l’opera in pubblico - è stato molto apprezzato dagli spettatori: è una direzione la sua, caratterizzata da rigore stilistico e grande sensibilità interpretativa.
All’altezza della situazione tutto il cast tra cui spiccano il soprano russo Elena Guseva (Liza), Elena Maximova (Polina), Roman Burdenko (conte Tomskij), Julia Gertseva nei panni della Contessa, algida e autoritaria, dal portamento aristocratico e distaccato, un tempo affascinante e licenziosa.
Star della scena è il giovane tenore di Samarcanda Najmiddin Mavlyanov che ha debuttato alla Scala con uno dei suoi cavalli di battaglia. Mi è parsa molto credibile la sua interpretazione di Hermann (che Šostakóvič considerava tra i più esemplari della storia dell’opera) : con la sua splendida voce ed una tecnica altrettanto valida è riuscito ad esprimere appieno i tormenti, l’inquietudine e le passioni del giovane ufficiale dalla personalità apparentemente razionale e dalla condotta irreprensibile che alla fine impazzisce in seguito al tentativo di imparare i segreti di gioco dell’anziana contessa (la Dama in questione).
Il regista tedesco Matthias Hartmann è stato contestato il giorno della prima per ‘lo spettacolo cupo, astratto e spoglio’, alla Dostoevskij, per intenderci. L’allestimento pensato e scelto, realizzato sulle tonalità del bianco, nero e grigio, non colpisce il pubblico e soprattutto non sottolinea ed enfatizza la presenza in scena dei vari interpreti ma è comunque raffinato, anche se freddo.
L’eccezione è rappresentata dalla parentesi del ballo allorché i costumi (firmati da Malte Lübben) abbandonano i colori neutri ed appaiono di taglio settecentesco, ricchi di riferimenti storici stratificati: un’esplosione di colori.
Gli spazi abbandonano il neon, si illuminano di luci colorate grazie a giganteschi lampadari che sono un elemento ricorrente della scenografia dell’opera e colpiscono (quelli sì) gli occhi e l’immaginario: letteralmente splendidi.
Alberto Malazzi guida il coro in una delle più complicate performance del panorama lirico, dall’ingresso scanzonato delle tate alla marcia marziale dei bambini. Fa sorridere il coro di voci bianche diretto da Marco De Gasperi: anch’esso si è esibito in russo come tutti i protagonisti.
Amo la musica di Čajkovskij e lo spettacolo mi è piaciuto molto, suscitando in me e nei miei vicini di poltrona una profonda emozione.
Crediti fotografici: Brescia e Amisano per Teatro alla Scala