di Massimo Reina
Ogni volta che si parla dello "scudetto di cartone" assegnato all'Inter nel 2006, la narrazione si colora di un’innocenza quasi fiabesca: loro, puri e immacolati, in un calcio travolto dal peccato. Peccato, appunto, che questa narrazione si sgretoli davanti ai fatti. L’Inter non solo non ha vinto nulla sul campo, ma ha costruito un castello di vetro su fondamenta traballanti, fatte di episodi imbarazzanti e scheletri nell’armadio ben più numerosi di quanto vogliano far credere.
I numeri non mentono, gli alibi sì
C’è qualcosa di irresistibilmente tragicomico nel modo in cui l’Inter e i suoi tifosi continuano ad aggrapparsi al famigerato “scudetto di cartone” del 2006, un trofeo assegnato dalla FIGC su basi più emotive che sportive. È come premiare un maratoneta che arriva terzo solo perché i primi due inciampano sul traguardo: il risultato è una medaglia che brilla più di ogni altra cosa, ma solo nella propria immaginazione.
Partiamo dai fatti. La Juventus chiude il campionato 2005-2006 con 91 punti, dominando il torneo dall’inizio alla fine. Il Milan, secondo, totalizza 88 punti, e l’Inter? Terza, a ben 15 punti di distanza dalla vetta, con una stagione costellata da pareggi imbarazzanti contro squadre di bassa classifica e prestazioni tutt’altro che memorabili.
In un mondo normale, una squadra che finisce terza con questo distacco non oserebbe neanche immaginare di essere considerata “campione”. Eppure, il calcio italiano, in preda al delirio post-Calciopoli, decise di regalare quel titolo all’Inter. Non c’è stato un ricalcolo, non un playoff, non una partita in più giocata: semplicemente, qualcuno in FIGC ha deciso di premiare il “più pulito”. Come se il fair play fosse un criterio sufficiente per alzare un trofeo.
Le prestazioni in campo: un disastro travestito da opportunità
Non dimentichiamo che quella stessa Inter, in Europa, si fece eliminare dal Villarreal nei quarti di finale di Champions League. Parliamo di una squadra con un budget e una rosa nettamente superiori, incapace di battere un club spagnolo di seconda fascia. In Coppa Italia, stessa storia: fuori per mano della Roma. E il campionato? Un lungo catalogo di mediocrità, dove la squadra di Mancini non riuscì mai a entrare seriamente nella lotta per il titolo.
Il paradosso del moralismo a intermittenza
Il bello, o il grottesco, arriva quando l’Inter, il club che si erge a paladino della giustizia sportiva, si scopre poco coerente. Come dimenticare il caso Recoba e il passaporto falso? L’attaccante uruguaiano venne schierato come comunitario grazie a un documento palesemente falso, permettendo al club di aggirare le regole sui tesseramenti. La vicenda si concluse con una multa simbolica e qualche settimana di squalifica, un buffetto rispetto alla gravità del fatto.
Nel 2003, l’Inter, sommersa dai debiti, si inventò la trovata geniale di vendere il proprio marchio a una società controllata dallo stesso club, la Inter Brand Srl,per poi riaffittarlo. In pratica, un giro di soldi tra le proprie casse. Un’operazione che, sebbene legale, fu criticata come un escamotage contabile per sanare i debiti, sollevando dubbi sulla trasparenza e sull'etica della dirigenza, e che gettò un’ombra sull’intero sistema di controllo delle licenze UEFA.
L’Inter non è nuova a scandali inquietanti, come quello emerso nel 2011, quando si scoprì che aveva ingaggiato agenzie di investigazione per spiare i dirigenti di altri club, giornalisti e persino i propri giocatori. Tra le vittime illustri ci fu Christian Vieri, che si scoprì pedinato e intercettato durante il suo periodo all’Inter. Il tribunale diede ragione a Vieri, condannando il club a risarcirlo per danni morali e violazione della privacy.
Lo Scudetto di Cartone e il Paradosso Morale dell'Inter
E veniamo al punto più gustoso: l’Inter, che si è proclamata vittima di Calciopoli, è stata a sua volta condannata per illecito sportivo. Lo ha stabilito la relazione di Stefano Palazzi nel 2011, secondo cui i comportamenti di Facchetti (allora presidente) furono da considerarsi non meno gravi di quelli attribuiti agli altri club coinvolti. La differenza? La prescrizione arrivò puntuale come un regalo di Natale, evitando danni concreti al club e permettendogli di continuare a pavoneggiarsi come “l’unica pulita”.
E gli investimenti faraonici che portarono a ingaggiare giocatori strapagati, senza costruire una squadra in grado di vincere sul campo? Non era forse questa una forma di “slealtà sportiva”? Come diceva Mark Twain: “È meglio stare zitti e sembrare stupidi che aprire bocca e togliere ogni dubbio”. L’Inter farebbe bene a tenere a mente questo consiglio, almeno quando si parla di purezza e meriti sportivi.
Lo scudetto 2006 è il simbolo di un’epoca in cui l’Inter non riusciva a vincere neanche con il vento a favore. Nessun trofeo può riempire il vuoto lasciato dalla mediocrità, e il tempo ha confermato ciò che i numeri già gridavano allora: la grandezza si conquista sul campo, non nei tribunali. Ma si sa, “il vittimismo è la maschera preferita del fallimento”. Moratti dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro.