di Antonio Fasulo
Ci eravamo proiettati nel terzo millennio, speranzosi e gasati come non mai, pronti ad accettare quelle sfide, tecnologiche e non, che il nostro tempo ci offriva.
Dopo essere entrati nel XXI secolo, passata l’euforia della prima decade, seguita dalla crisi della seconda, stavamo lì, lì, tenendoci a galla, in attesa che qualcosa succedesse. Ebbene, a dare la spallata ad un tempo d’oblio e di tedio, di speranza e d’assedio, ci ha pensato un virus, un virus sconosciuto, un virus che ha scatenato una pandemia globale e che ha trasformato per sempre le nostre vite. E se da un lato ci ha fatto scoprire fragili e indifesi, impauriti ma uniti, dall’altro lato ha mostrato i limiti di una società in cui, la crisi economica prima e la burocrazia poi, ci avevano imposto. A marzo di un anno fa, durante il primo confinamento (lockdown) abbiamo dovuto inventare, accelerare, riscoprire il modo in cui restare in contatto, un modo per lavorare da casa, un modo per studiare da casa, un modo per interagire da casa, in parole povere: un modo per sentirci vivi pur restando confinati dentro le quattro mura della propria abitazione.
All’inizio i social network come Facebook, Instagram, Tik Tok, Twitter ci hanno aiutato in quello che in fondo sapevamo fare già bene, ma che, causa forza maggiore, ha visto aumentare in modo esponenziale la nostra presenza in rete. Persone single o intere famiglie si sono riversate in rete a caccia di un abbraccio virtuale, un Mi piace, un segno di iterazione che potesse alleviare il restare chiusi in casa. E lì via con post di qualsiasi tipo, ricette, piatti gourmet, allenamenti sfrenati nel corridoio o sul tappeto in sala, le corse sotto casa nel parcheggio condominiale, le foto con i lavoretti dei figli e chi più ne ha più ne metta.
Insomma per le attività ludiche sembrava un problema risolto, internet, gli smartphone, i social network, hanno svolto il loro compito al meglio.
Dall’altra parte invece, abbiamo visto che il progresso tecnologico non aveva seguito di pari passo lo sviluppo delle aziende o della scuola, della pubblica amministrazione o della sanità. Ed ecco che una giovane ministro dell’istruzione, impreparata a questo tipo di eventi (ma chi lo era o chi lo sarebbe stato al suo posto?) ha dovuto inventare una parola che di li a poco sarebbe entrata nella quotidianità: la DAD (didattica a distanza) . Ma, oltre ad inventare un acronimo, dall’idea alla sua messa in pratica ci ha mostrato i limiti in cui, scuola, docenti e famiglie, erano confinati. Mancanza di attrezzature, personal computer e tablet non erano alla portata di tutti, la connessione internet poi, non dico la fibra ma almeno quella “normale” era ancora una chimera per moltissimi studenti e famiglie. E lì si è visto che i gigabyte della connessione dati del proprio telefonino, messi a disposizione dei figli in modalità tethering, terminavano immediatamente. Avevamo scoperto di essere ancora nella preistoria del terzo millennio.
Ed ecco qui che entra in gioco l’altra faccia della pandemia, il rovescio della medaglia appunto. Sì perché se da un lato ha portato morte e distruzione, sofferenza e confinamento, dall’altra parte ha dato la spinta a tutti quei settori dove la tecnologia doveva essere messa al primo posto. Le aziende prima, la pubblica amministrazione poi, ed infine la scuola, hanno dovuto accelerare il processo di ammodernamento che la crisi pandemica richiedeva. La digitalizzazione del paese ha fatto più progressi negli ultimi quindici mesi che negli ultimi quindici anni.
Le grandi aziende hanno spostato la forza lavoro a casa e hanno visto che funziona. Parole come smart working (lavoro agile, per i puristi) sono entrate nell’uso quotidiano. Lavorare da casa, studiare da casa, d’un tratto era diventato possibile e soprattutto conveniente in quei settori che rischiavano di restare fermi a causa del blocco del paese.
C’è ancora un altro aspetto, anch’esso importante, un altro settore che ha dovuto fare i conti con il confinamento, con i divieti di assembramento, un settore intero che ha dovuto reinventarsi, sto parlando degli eventi culturali. Con i teatri chiusi, le sale convegno chiuse, i circoli culturali chiusi, tutti si sono dovuti spostare sugli eventi on line. Alcuni artisti hanno tenuto corsi o rubriche su internet, attraverso i social o piattaforme nate per lo streaming come Streamyard o Zoom, le presentazione dei libri si sono fatte esclusivamente in rete, in modalità virtuale, sono nate rubriche di cultura in cui si parla di poesia, di libri, di musica. Personalmente ho partecipato ad eventi poetici o presentazione di libri tenutasi solo on line. Ed è stato bellissimo poter restare in contatto con tutti.
Insomma anche dal punto di vista dell’arte, letteraria e non, ci si è dovuto ingegnare, inventandosi nuovi modi per comunicare e arrivare alle persone desiderose e affamate di cultura.
Ecco, questa è la parte dell’essere umano che mi piace, quella capacità di vincere le sfide e imparare da esse nuovi modi per migliorarsi. Ed ora sono costretto a cadere nella banalità, di cui mi perdonerete, perché penso che il motto, scritto sulla bandiera nella prima foto sopra, frase nata un anno fa, sia più che mai attuale, che sia stata, ed è, una esortazione alla fiducia, valida ancora oggi: #andràtuttobene
Foto di Antonio Fasulo e screenshot dal web