di Annamaria Emilia Verre
<< Il Piave mormorava, calmo e placido, al passaggio dei primi fanti il 24 Maggio >>.
Così scriveva nella celebre canzone del Piave, nell’estate del 1918, il Maestro (poeta) Ermete Giovanni Gaeta, meglio conosciuto con lo pseudonimo di E.A. Mario, per sollevare il morale delle truppe italiane che combattevano gli austriaci durante la Prima Guerra Mondiale. Il Generale Armando Diaz si complimentò direttamente con l’autore per l’effetto positivo che aveva avuto sulle truppe. “La vostra leggenda del Piave al fronte è più di un Generale”, scrisse Diaz a Gaeta.
Il 24 Maggio 1915 il Regno d’Italia, dopo le “radiose giornate di maggio” entrava in guerra contro gli Imperi Centrali.
In realtà il conflitto bellico era già scoppiato nell’estate precedente, ponendo fine così a quello che veniva definito il secolo della belle- époque. Il casus belli fu l’assassinio di Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria Ungheria, e della moglie Sofia Chotek von Chotkowa, avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo, dove si trovavano in visita ufficiale. L’attentatore, Gavrilo Princip, era uno studente appartenente ad un gruppo irredentista bosniaco. L’assassinio fu solo la scintilla, poiché, le vere cause furono ben altre: politiche, sociali, economiche e persino culturali. L’Italia, legata alla Triplice Alleanza, avvalendosi del fatto che il Trattato avesse natura prettamente difensiva, si dichiarò, temporaneamente, neutrale. Il Paese, ben presto, si trovò diviso in due schieramenti: i Neutralisti, che negavano il conflitto, e gli Interventisti, convinti sostenitori. Figura certamente emblematica del periodo fu quella di Gabriele D’annunzio (1863/1938). Il Vate, così come fu definito, con i suoi infiammanti e veementi discorsi di piazza diede un contributo notevole al movimento interventista. Egli amava il vivere inimitabile, e per questo si arruolò come aviatore organizzando sensazionali azioni propagandistiche. Fautore della guerra fu anche il futurista Filippo Tommaso Marinetti (1876/1944). Egli sostenne apertamente la guerra “sola igiene del mondo”.
Il 26 Aprile 1915 il Ministro degli Esteri Sonnino sottoscrisse, a nome del Governo italiano, il Patto di Londra. Un Trattato segreto stipulato ignorando completamente la volontà neutralista della maggioranza del Parlamento. L’Italia si impegnò, così, ad entrare in guerra nel giro di un mese, ottenendo in cambio, in caso di vittoria, l’annessione di Trento e di Trieste. Il Capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna, appresa la notizia del Patto, accettò gli ordini, ma comunicò che l’esercito non sarebbe stato pronto prima di un mese. Nonostante ciò il morale era alto, certi che Trieste sarebbe stata liberata nel giro di poche settimane. Salandra, allora Presidente del Consiglio dei Ministri, quando venne interrogato da Francesco Saverio Nitti, nell’estate del 1915, sulle attrezzature invernali dell’esercito, rispose :” Credi che la guerra possa durare oltre l’inverno?!”… Quella guerra durò ben quattro anni. Fu la prima guerra di massa: condotta per terra, per mare e in cielo. Vennero impiegate armi mai prima usate: aerei, sottomarini, carri armati e gas asfissianti. La Prima Guerra Mondiale fu una orrenda carneficina. Coinvolse 27 Paesi, costò 10 milioni di morti, 20 milioni di feriti senza contare i dispersi. Una delle poche voci che si levarono contro il conflitto fu quella di Benedetto XV, il “Papa della Pace”. Egli chiese invano alle potenze belligeranti il disarmo e il ricorso all’arbitrato per la “cessazione di questa lotta tremenda, la quale ogni giorno più apparisce inutile strage”.
Oggi, nell’ anniversario della Grande Guerra, così come fu chiamata dagli stessi contemporanei, non solo perché stava durando molto più del previsto, ma anche perché era diventata una grande “macchina” che dispensava continuamente nuove vittime, voglio dare voce a loro: uomini, ragazzi, italiani che innalzarono con dignità e orgoglio il tricolore italiano, pronti a combattere, al grido “Viva l’Italia” , per amor “de la nostra cara Patria e proprio sacro dovere”, una orribile guerra che probabilmente non l’ apparteneva. Italiani dinanzi ai quali, chinando il capo, si può solo riflettere sulle nefaste conseguenze e le diverse crudeltà della guerra. La storia serve anche a questo, ricordare a non ripetere gli stessi errori. Almeno dovrebbe!...
Il primo momento è quello del distacco dalla madre, dalla moglie, dai figli, partendo verso un futuro ignoto, ma minaccioso. Fra i soldati vi è il contadino che non conosce le motivazioni del conflitto e neppure la geografia italiana. Va in guerra per senso del dovere oppure semplicemente per paura. Viene strappato dal Paese e dai suoi cari, ammassato su un treno e condotto sui campi di battaglia. Si trova così gettato in una realtà infernale di cui non riesce ad afferrarne il senso. Vi è anche il borghese, il quale conosce la storia d’Italia e il Risorgimento, crede nei valori patriottici. Legge i giornali, quindi sa perché il suo Paese è in guerra, e spesso parte convinto e pieno di entusiasmo. Per questo giovane il trauma è ancora più grande, sia perché non è abituato alla fatica fisica e ai sacrifici, e sia perché sognava una guerra eroica e si ritrova, invece, in un grande macello. Ma la vita nelle trincee non fa distinzioni. Tutto era difficile! I soldati vedevano cadere i compagni a uno a uno e sapevano che a breve, al prossimo attacco, poteva toccare loro. Spesso dovevano correre calpestando i corpi di chi era caduto prima , tra le urla dei morenti e le detonazioni. I problemi erano numerosi anche quando le armi tacevano. Vivevano in pessime condizioni per la sporcizia, la mancanza di igiene trasformò ben presto le trincee in un rifugio per topi che prolificarono a dismisura; per le intemperie climatiche, il caldo d’estate, la neve e il gelo d’inverno, la pioggia. Fango e pidocchi non furono nemici meno temibili delle raffiche dell’artiglieria austriaca. Pensare che molti soldati nel primo anno di guerra combatterono con in testa semplici “berretti”, ornamenti tipici del XIX secolo che non potevano di certo fermare le pallottole sparate dai cecchini stranieri. Queste toccanti pagine di storia vennero rappresentate, con molta intensità, da Giuseppe Ungaretti (1888/1970). Egli, a differenza di D’Annunzio, non si rese protagonista di eroiche azioni o valorose gesta, ma è semplice fantaccino, è in trincea, con il nemico davanti, in prima linea. Abbandonati i sentimenti nazionalisti che lo avevano mosso fino a qualche mese prima, egli prese coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. Durante il riposo in mezzo alle trincee o nelle retrovie della pianura friulana egli scrive. Scrive poesie di getto su foglietti che si porta dietro dentro lo zaino; scrive sui rotoli di cartone tenero che avvolge le cartucce, rappresentando, analogicamente, ciò che in quel momento vede. Il poeta paragona la vita del soldato, senza nome, senza identità, desolato e solo, alla fragilità di una foglia in autunno. Si legge nei versi “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” (Soldati, 1918). “Una intera nottata vicino a un compagno massacrato […] nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita” (Veglia, 1915). Anche nel dolore più lacerante, anche nel buio più profondo si può scorgere la luce, intesa come amore per la vita e amore per l’umanità, che restano sempre e comunque, i valori più alti da curare. Con il suo “M’illumino d’immenso”, il poeta riesce ad esprimere, come pochi, il suo anelito d’Infinito e di Eterno. Questa tremenda esperienza creò un grande senso di fratellanza e di solidarietà fra i soldati semplici, i quali provavano paura ma anche, in alcuni casi, desiderio di dimostrare il proprio coraggio rischiando la vita per recuperare un ferito fuori dalla trincea. Lo spirito di corpo e il cameratismo davano un senso di unione e di coesione ai soldati che diventarono una unica e grande famiglia. Solidarietà che si estese anche nei confronti del nemico. Basta pensare la famosa Tregua di Natale del 1914, durante la quale i soldati provenienti da unità diverse lasciarono spontaneamente le trincee per incontrarsi nella “terra di nessuno” per fraternizzare, scambiarsi cibo e souvenir. Negli anni successivi gli Alti Comandi emisero espliciti ordini per impedire qualsiasi tentativo di instaurare tregue.
Uno degli aspetti meno conosciuti in trincea e in retrovia fu quelle delle punizioni e dei processi ai soldati. Il Capo del Comando Cadorna, personaggio carismatico ma anche molto controverso, rimase convinto per tutta la durata del suo incarico che l’unico modo utile e giusto per condurre una “guerra” fosse “l’attacco ad ogni costo” senza badare alle conseguenze. Egli ordinò la massima severità per il mantenimento della disciplina e il rispetto dell’autorità. Atteggiamento che nel corso del conflitto s’irrigidì sempre di più assumendo spesso i contorni di una spietata crudeltà. I soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee, appena giungeva l’ordine, potevano essere colpiti alle spalle dai plotoni di carabinieri, chi non rispettava queste indicazioni rischiava la condanna al carcere militare. L’aspetto più tragico furono le condanne a morte a carico dei soldati dovuti ai motivi più disparati. Un soldato poteva essere fucilato per essere ritornato in ritardo dopo una licenza oppure per essere stato sorpreso a riferire o scrivere una frase ingiuriosa contro un superiore. La fucilazione, quale sanzione capitale, poteva essere emanata dai Tribunali Militari, in base a processi regolari secondo le norme del tempo. Più cruente erano le fucilazioni sommarie, la c.d. “giustizia di piombo”, ovvero la possibilità per gli ufficiali e sottoufficiali di soppressione immediata del soldato reo di comportamenti che potevano compromettere la riuscita di operazioni o la sicurezza del reparto. All’epoca dei fatti il fondamento giuridico di tali esecuzioni veniva individuato nell’articolo 40 del Codice Penale dell’esercito, in base al quale in caso di reati quali lo sbandamento, la rivolta e l’ammutinamento o la diserzione con complotto, il superiore gerarchico che non utilizzasse qualsiasi mezzo a sua disposizione, ivi comprese le armi, per impedirne la consumazione, doveva considerarsi correo e dunque passabile delle stesse gravissime pene stabilite per detti reati. Nell’ipotesi di esecuzione sommaria la morte del militare poteva essere deliberata sulla base di un giudizio di un singolo superiore, senza che venisse seguita alcuna regola, senza sentire le discolpe, senza intervento di un difensore, senza assunzione di prove , senza la stesura di atti o verbali che potessero essere oggetto di controllo. Infine, le fucilazioni eseguite con il metodo della decimazione, alla quale si ricorreva nell’ipotesi in cui non si riuscisse ad individuare i colpevoli, in alcuni casi, infatti, “si accettava il rischio di colpire degli innocenti sorteggiati casualmente fra gli appartenenti al reparto in cui si erano verificati i fatti. La funzione della decimazione era quella di ricondurre all’obbedienza i soldati scampati all’estrazione, nonché tutti gli altri militari, mediante l’esempio intimidatorio della sorte toccata ai propri compagni”. Uno dei casi più celebri fu quello della Brigata Catanzaro, avvenuto a Santa Maria la Longa nel luglio del 1917. La “restituzione dell’onore” ai tanti militari italiani condannati con processi sommari (o senza processo) è ad oggi oggetto di richiesta da parte di storici, intellettuali, parlamentari e amministratori locali al fine di rimediare ad un trattamento iniquo e soprattutto in assenza di un comprovato e oggettivo accertamento di responsabilità. La scorsa settimana il Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia ha approvato una proposta di legge per riabilitare i soldati italiani fucilati all’interno dei suoi attuali confini, ed inoltre con tale proposta istituisce una “Giornata regionale della restituzione dell’onore” ogni 1° luglio.
Ovviamente per tutti questi motivi la pressione psicologica dei soldati fu messa a dura prova. Esperienze che segnarono molti uomini per tutta la vita. Proprio nelle trincee, tombe di esseri umani ancora in vita, oltre alla fede e alle preghiere, all’invocazione alla Vergine Regina della Pace, (fondamentale il ruolo dei cappellani militari), l’unico modo che i soldati avevano a disposizione per resistere a condizione di estrema precarietà e per non impazzire, era quello di scrivere. La luce di un lume, un foglio di carta e un po’ di inchiostro erano una vera e propria ricchezza che consentiva al milite italiano di conservare rapporti e legami con la sua unica ragione di vita: gli affetti familiari. Lo scrivere permetteva al soldato di spogliarsi dei suoi panni di militare per rivestire quello del marito, del fidanzato, del padre, e così parlare delle proprie paure e angosce, desideri e speranze. Ogni giorno trincee e prime linee erano sommerse di lettere e cartoline, sia in partenza che in arrivo. Si stima che le Poste italiane, durante quegli anni, smistarono circa 4 miliardi di missive. Non conta la sintassi, a volte povera e sgrammaticata o il linguaggio anacronistico e la retorica di altri tempi, ma l’autenticità di un pathos che il distacco amplifica. Sorprende la poesia e la modernità di certe espressioni, la velata allusione a una intimità taciuta per pudore o per censura. Gli epistolari più lunghi scandiscono storie di coppie spezzate, che cercano in una lettera il filo di congiunzione, rafforzato dalla fede e dalla speranza, per molti illusoria, di ritrovarsi. Così come si legge nella bellissima lettera inedita, datata 30 Maggio 1917, scritta dal Fante Angelo Picardi ed indirizzata alla giovane sposa Michelina che attendeva il suo ritorno a Pietradefusi. E’ una lunga lettera di estrema dolcezza e delicatezza in cui lo scrivente, ormai al fronte da circa due anni, si strugge di amore e manifesta tutto il suo ardente desiderio di rivedere e riabbracciare la sua amata. Il testo è scritto con una grafia e uno stile perfetti e ricercati, non ci sono cancellature o errori, ma d’altronde una lettera del genere equivaleva ad un appuntamento d’amore e quindi, bisognava essere, assolutamente, impeccabili. In quel contesto la lettera ha il potere di azzerare le distanze e la parola scritta si fa speranza, sostegno, preghiera, ma soprattutto motivo di sopravvivenza: forse l’unico per migliaia di vite sacrificate nel nulla.