di Sergio Melchiorre
Il 5 aprile scorso, il Ministro della Cultura ha firmato il fatidico decreto inerente l’abolizione della censura cinematografica.
Dario Franceschini ha affermato che è stato «abolito quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti».
Per le piattaforme che offrono legalmente e a pagamento la visione di prodotti come film, serie TV, show, documentari in streaming su Internet, in modalità on demand la responsabilità è demandata alla famiglia.
I film, pertanto, sono classificabili in base al pubblico di destinazione: opere per tutti; opere non adatte ai minori di anni 6; opere vietate ai minori di anni 14 e opere vietate ai minori di anni 18.
Il decreto attuativo, che segue la cosiddetta «Legge cinema» del 2016, istituisce infatti una nuova Commissione per la classificazione delle opere della «Settima Arte», la quale potrà proibire la visione di certi film ai minorenni, ma non potrà più vietare a certi film di uscire nelle sale cinematografiche o imporre tagli e/o modifiche a determinate scene ritenute non adeguate alle circostanze.
Nel 2007, fu levata la censura al film «Arancia meccanica» (1971) di Stanley Krubrick, perciò la pellicola poteva essere trasmessa alla televisione, anche se formalmente vietata ai minori di sedici anni. Il tanto agognato e contestato lungometraggio era stato considerato per anni una specie di pamphlet antiutopico sul nostro futuro prossimo, dove dominavano violenza e frustrazione sessuale frutti del disorientamento e dell’impossibilità di realizzare i propri desideri.
Nel corso degli ultimi decenni, altri film hanno affrontato il tema della violenza gratuita e della trasgressione sessuale: «Soldato blu» (Soldier Blue, Ralph Nelson, 1970), «Cane di paglia» (Straw Dog, Sam Peckinpah, 1971), «Un tranquillo week-end di paura» (Deliverance, John Boorman, 1972), «Il portiere di notte» (Liliana Cavani, 1974), per citare soltanto quelli più noti. Lo stupro, visto come ultima negazione del diritto delle donne a dire «no», è stato spesso sfruttato nella storia del cinema per «esaltare» il desiderio (inconscio) dello spettatore di sottomettere il/la partner in un gioco perverso e ripugnante, dove la finzione attorica non è più filtrata dall’immaginazione.
Le locandine di «Easy Rider–Libertà e paura» (Easy Reader, Dennis Hopper, 1969) snaturano la sostanza stessa del film, in quanto riproducono «la scena dell’acido», girata in 16 mm, in un contesto volutamente ambiguo, che può indurre il potenziale spettatore a pensare che si tratti di una pellicola erotica e non di uno dei film d’autore più interessanti del cinema indipendente americano.
Basta sfogliare qualsiasi rivista, che riporti i programmi televisivi, per rendersi conto che centinaia di film dozzinali e violenti vengono trasmessi alla T.V., in prima serata, senza che nessuno si preoccupi minimamente di rispettare i desideri degli spettatori, costretti sempre più a adeguarsi alle «esigenze» del mercato cinematografico internazionale.
Bisognerebbe essere dei nottambuli incalliti o degli irriducibili «cinéphiles» per poter gustare i pochi film-cult che venivano somministrati dalla tivù, durante la notte (con trasmissioni come Fuori orario, Cose (mai viste) su RAI Tre) o in concomitanza di partite di calcio, campionati del mondo di sci o festival canori.
Non sono gli atteggiamenti epidietici, assunti (volutamente) dai protagonisti dei (tele)film, che fanno paura ai produttori, ma il concetto di libertà che si manifesta attraverso il cinema…
«Ultimo tango a Parigi» (Bernardo Bertolucci, 1972), «Salò o le 120 giornate di Sodoma» (Pier Paolo Pasolini, 1975), «Ecco l’impero dei sensi» (Ai no Korida, Nagisa Oshima, 1976)… e quasi tutti quei film che non hanno ancora la possibilità (peraltro legittima) di passare alla TV, perché considerati «blasfemi», sono sostanzialmente dei film «pornosoft» d’autore, dove l’oggettivazione sessuale deve essere letta in chiave psicanalitica. L’aspetto erotico, così temuto dai benpensanti, sottolinea l’incapacità dell’uomo a comunicare con i suoi simili, perciò l’intellettuale è costretto a fare ricorso alla sessualità per denunciare il male «generazionale» che attanaglia i componenti più deboli della società coeva.
«La censura – scrive Vergne – dopo aver abbandonato la veste troppo conosciuta delle cesoie vendicatrici pronte a dilaniare la celluloide, è oggi forse più temibile. È stata, infatti, a poco a poco interiorizzata dagli autori di film erotici che hanno compreso in che modo la cultura contemporanea, invece di essersi liberata delle proibizioni, si sia semplicemente accontentarla di trasferirle».
Il sospetto è che l’assimilazione culturale sia così radicata nella «forma mentis» dei cineasti da fare apparire superflua e tardiva l’abolizione, almeno formale, della censura.
«Totò che visse due volte» (Daniele Ciprì e Francesco Maresco, 1998) costrinse il Governo italiano ad abolire la censura cinematografica, dopo che la VII Commissione aveva espresso parere negativo sul film, negandogli il nulla osta, ai sensi dell’articolo 161, perché considerato «blasfemo» e «sacrilego».
Il film italiano, pressoché sconosciuto al grande pubblico, è stato proiettato nelle sale cinematografiche della Penisola, grazie al merito attribuitogli dalla critica, o è stato trasmesso alla televisione, in prima serata, perché è stato l’ultimo dei film sottoposti alla censura di stato?
Possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che l’abolizione della censura, probabilmente tardiva, possa riaccendere la speranza dei cineasti e che, dopo la pandemia, il nostro Paese possa tornare a produrre finalmente film validi, senza l’assillo che la censura possa tarpare le ali ai futuri e potenziali capolavori cinematografici.