di Massimo Reina
Ma guarda un po’. Dopo anni di prediche sull’imparzialità, sulla trasparenza e sull’inesauribile missione di illuminare le masse con la luce della "verità", scopriamo che Open – sì, proprio il fact-checker che decide cosa possiamo leggere e cosa no – fa parte di una rete finanziata dal Dipartimento di Stato americano, dalla National Endowment for Democracy (NED) e dalla Open Society Foundations di George Soros. Roba da non crederci. E invece è scritto nero su bianco sul sito del Poynter Institute, il santuario del fact-checking mondiale che controlla la famigerata International Fact-Checking Network (IFCN), quella che – per intenderci – decide chi è "affidabile" e chi merita di essere bollato come disinformatore.
I fact-checker: il grande bluff
Dunque, ricapitoliamo: Open, che per anni ha dettato legge su Facebook e sui social italiani, che ha censurato contenuti, etichettato articoli e perfino contribuito a bannare pagine, era – ed è – parte di un meccanismo che riceve fondi da entità legate al soft power degli Stati Uniti. Tradotto: il fact-checking “indipendente” che doveva difenderci dalle fake news è, in realtà, finanziato da chi ha tutto l’interesse a stabilire quali sono le verità accettabili e quali devono essere silenziate.
Naturalmente, gli amici di Open si diranno indignati per queste insinuazioni. Replicheranno che il loro lavoro è mosso solo dal rigore giornalistico, dall’amore per i dati, dalla devozione alla sacra missione dell’informazione corretta. Bene, allora spieghino. Ci dicano perché il loro network è foraggiato da Washington, perché la stessa IFCN è finanziata dalla NED, quella che il New York Times ha definito “l’organizzazione che porta avanti all’estero ciò che la CIA faceva di nascosto”. Ci spieghino, soprattutto, perché su certi temi – guarda caso quelli più scottanti per gli equilibri geopolitici – la loro neutralità si scioglie come neve al sole.
Nel frattempo, però, ci permettiamo di rinnovare una domanda semplice semplice a David Puente & Co.: per caso avete a che fare anche con USAID? Sapete, quel "Dipartimento di Stato americano" citato sul sito dell’IFCN non è che per caso si traduce in finanziamenti che passano attraverso USAID, l’agenzia che si occupa di "promuovere la democrazia" all’estero con metodi che spesso somigliano più alla propaganda che all’assistenza umanitaria?
Aspettiamo fiduciosi risposte. Ma nel frattempo, qualche altro fact-checking dovremmo farlo noi. Magari iniziando da chi controlla i controllori.
Europa: benvenuti nel Grande Fratello
E noi europei? Restiamo qui, spettatori passivi, a guardare questo teatrino mentre i nostri governi stringono il cappio del Digital Services Act. Altro che libertà di espressione: qui si rimuove tutto ciò che non rientra nei sacri canoni del “consentito”. E guai a chi si ribella, che si tratti di canali Telegram o media alternativi.
Ironico, no? In questa caccia alla disinformazione, siamo finiti a vivere in una distopia regolamentata dove l’unica informazione ammessa è quella che le “autorità competenti” ritengono opportuna. Praticamente Orwell con una spruzzata di algoritmo.
Pavel Durov, fondatore di Telegram, ha riassunto tutto con una stoccata al veleno: “Nel 2025, gli utenti russi hanno più libertà di quelli europei”. Una frase che dovrebbe farci tremare, se non fossimo così anestetizzati dalla propaganda di chi “sa cosa è meglio per noi”.
Questa non è una difesa della disinformazione, sia chiaro. Ma se c’è una cosa peggiore delle fake news, è chi usa il pretesto di combatterle per trasformare i social in una cloaca di censura unilaterale. E mentre Zuckerberg gioca al paladino della libertà per motivi che hanno più a che fare con i profitti che con i principi, noi in Europa continuiamo a dormire sonni profondi sotto le coperte del paternalismo autoritario.
Forse dovremmo ricordarci che la vera libertà non è qualcosa che si concede a intermittenza, come una luce al neon difettosa. E che gli arbitri della verità, alla fine, sono sempre gli stessi che truccano il gioco.