di Carmensita Furlano
“Non importa cosa ci porterà il futuro perché la vita è fatta di mutazioni. La morte è una vita mutata. Quindi l'unica cosa certa è che non dobbiamo avere paura del Futuro!"
La salute un bene prezioso, personale e collettivo, intorno ad esso si anima lo sviluppo della società, l’Umanizzazione delle cure, il coinvolgimento della famiglia, argomenti che costituiscono il centro della medicina fin dai tempi di Ippocrate, arrivando alla definizione di Salute messa a punto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 come “uno stato di completo benessere fisico, mentale, e sociale – e non la mera assenza di malattia”. Eppure ancora oggi, molto, tantissimo non funziona, si perde di vista l’unicità e la irripetibilità di ciascun individuo, il suo ascolto e la sua comprensione che aiuterebbe a dischiudere quelle tristi e buie finestre che spesso ottenebrano l’essere umano nella globalità. Si chiede ai medici di ottimizzare la prestazione per evitare sprechi, di un buon uso dei gold standard, aiutando così a perdere di vista la vita umana da salvare fino a quando il piccolo barlume di luce splende, compresi gli anziani. Una sanità che soffre costringendo, a volte, i medici a dimenticare il perché di quel camice bianco.
Non può nascondersi che nella realtà qualcosa è diverso, se una parte di sanità funziona con medici bravi o meno bravi, eccellenti o poco, luminari italiani in giro per il mondo e tante volte originari del sud Italia, personale sanitario di vario livello che non risparmia energia; ne esiste sempre un’altra, di dimensioni maggiori – forse - che cola a picco in tutta Italia, però è sempre quella del sud la più bistrattata, la meno considerata, ma funziona e bene pure, solo che non se ne parla. Non si fa il medico, lo si è senza sé e senza ma, prima di essere un lavoro è una missione che per certi versi è salvifica anche per il medico stesso. La cura posta in essere è da rivolgere si alla malattia, ma soprattutto all’intera realtà unitaria derivata dall’interazione reciproca di due grandi complessi strutturali: la somatica e la psichica cioè l’essere umano.
Siamo il Paese del G7, eppure troppo non funziona soprattutto nel bene più prezioso: la salute.
“Noi i pazienti li ascoltiamo, ricostruiamo assieme a loro la loro storia, noi i pazienti li trattiamo come persone uniche non come campi di battaglia per una guerra ai virus". Perché ho deciso di fare il medico? I motivi sono gli stessi dai tempi di Ippocrate, ci siamo noi e c’è quella grandissima stronza della morte, ci sono giornate come queste che sembrano inarrestabili, lo so, ma non è così perché ci siamo noi, tutti i libri che abbiamo letto, tutto lo studio, tutta la pratica è servito solo a guardarla in faccia e dirle non oggi, e non importa quanto disperate siano le condizioni di un paziente, non oggi, non importa se neanche i pazienti ci credono più, non oggi, qualcuno di noi cederà, altri reggeranno bene la pressione, ma voi dovete ricordarvi sempre perché siamo qui: per metterci in mezzo tra i pazienti e la stronza, questo è essere medici".
Queste sono le parole pronunciate dal “Dr. Andrea Fanti” in una puntata della prima serie della famosa fiction “DOC: nelle tue mani”, parole che vorrebbero ascoltarsi sempre da tutti i medici perché ogni giorno può essere salvata anche solo una vita, tutti si diventa pazienti prima o dopo, e tutti si può diventare codice rosso, ricordando che il “mestiere” di medico è complesso, complicato e difficile.
Una fiction (in italiano tradotta “finzione” ma usata come narrazione) è la narrazione letteraria, cinematografica o televisiva di eventi basati su fatti reali ma che contengono sempre elementi immaginari, ed ha l’abilità di evocare l’intero spettro delle emozioni umane: per distrarre la mente, dare la speranza in momenti di sconforto, far ridere, o lasciare esperienze empatiche senza attaccamento.
E pur essendo la realtà ben diversa dalle Fiction, piace ricordare tra i tanti esempi possibili alcuni che superano la fiction stessa, come il Prof. Francesco Maria Antonini - prof prima cattedra universitaria italiana e mondiale di Geriatria 1962 - teneva tutti i pazienti in ospedale vestititi perché non dovevano andare a letto, diceva: “più si sta a letto e più si esce ammalati”, nel 1976 difendeva l’importanza del refettorio, i pazienti dovevano mangiare nei refettori: “il paziente che mangia in refettorio mangia di più”, nel 1830 nell’ospedale Santa Maria Nuova di Firenze c’era il refettorio.
Perché non ricostruire i refettori? Perché si ha solo la mensa per il personale? Medico e paziente (coloro che possono) insieme, il paziente potrebbe restare tutto il tempo che desidera socializzando, questa è cura è guarigione, è ottimizzare, non è utopia. È necessario rivedere l’approccio medico-paziente a livello generale, il paziente diventa bambino, sa bene che il medico è un essere umano e unica ancora di salvezza nei momenti di paura.
Ancora, nel 1982 il Dr. Maurizio Bonsignori – primario Reparto Oncologia Ospedale Umberto I di Ancona (O.R.M.) e ideatore dello I.O.M. (Istituto Oncologico Marchigiano) - si adoperò perché i pazienti non dovevano sentirsi solo tali, che il segno della cultura non poteva essere sostituito solo dalla professionalità; ed i pazienti recepivano tutto questo al punto tale da sentire la vita in movimento e la malattia non riempiva più completamente le loro teste.
E ancora come accade in un giorno qualunque, ritrovarsi a chiacchierare – in ospedale - sulla comunicazione assistendo ad uno di quei momenti preziosi che non si descrivono mai, un paziente dimesso passa a salutare ringraziando e potendo stringere la mano al Primario – insieme con la squadra - che gli ha salvato la vita, con occhi che esprimono tutta la gioia di chi si sente Amato. Osservare il Primario – sorridente in corsia - esclamare: “stavo venendo io a salutarla, allora, contento? L’abbiamo messa a nuovo”. Emozione pura, buona sanità, pazienti persone e non numeri, comunicazione di parole, di gesti, di sguardi: medico-paziente-famiglia.
Bè, le parole della fiction non restano solo in quella puntata, vivono anche in quella sanità buona che non riceve mai pubblicità. Quella sanità, al sud, capace di trasmettere che il reparto è famiglia, il reparto è comunità, il primario (oggi direttore) è il padre, il pastore, il primo animatore, l’organizzatore, il primo sorriso che si incontra, l’ultimo abbraccio che si riceve, colui che ha cento occhi, instancabile, presente anche quando ha il turno di riposo. Ogni reparto è ad immagine e somiglianza del proprio Primario, e se il primario funziona (ha gli attributi ma a volte ha anche paura: è questo che aiuta a comprendere ciò che provano i pazienti) anche il reparto sarà produttivo di buona sanità, perché prima di tutto è Medico; così anche per l’intero personale sanitario che costituisce la squadra.
Non si fa il medico…. lo si è senza sé e senza ma…anche quando le condizioni pratiche non sono le migliori, anche quando non si hanno ospedali costruiti a livelli strategici, e la lista è lunga, il medico deve sempre ricordare che il paziente è nelle sue mani, che è la vera macchina di studio, di intelligenza, di capacità, di istinto, di cura. I medici seguono i pazienti, li guardano ogni giorno, li osservano, a loro è data la possibilità di usare gli occhi che guardano anche senza esser visti, le orecchie che ascoltano anche senza essere udite, e soprattutto usare l’unico organo che permette la reciprocità sensoriale: la mano, essa non può toccare senza essere toccata, ed infine toccarli con la testa e con il cuore.
Sia chiaro: il paziente non è un numero ma il medico non è un badge.
Il medico - qualunque sia il grado che ricopre (e così l’intero personale sanitario), qualunque sia il proprio stato emozionale – anche non empatico, deve possedere alcune qualità, ed in caso contrario deve ricercarle, conoscerle e farle proprie: la paziente Attesa, l’Accoglienza e l’Ascolto, il tutto imbevuto di Gentilezza anche durante l’urgenza più grave.
Non esiste cura e comunicazione senza queste qualità, chi sceglie di essere medico ha il dovere di conoscere bene la differenza tra AmaRe e ARmare, CRedere e CedeRe nella cura di ogni paziente, il suo comportamento è il riflesso di ciò che è, di ciò che vuole. Accadrà sempre il voltarsi indietro per salutare e ringraziare, anche di un solo paziente, sarà allora che il medico riceverà forza e linfa nuova per ricominciare, perché ogni giorno è un nuovo inizio, una nuova prova, una nuova conoscenza, un nuovo arricchimento e anche una possibile perdita nella quale dovrà essere padre, fratello, figlio, amico e Medico, perché ogni essere umano uomo o donna che sia, lascia un segno, perde un’impronta, traccia un solco per non essere mai dimenticato. È quell’attimo presente che si spera essere identificato dal medico e salvato, non è il domani, è l’adesso nel quale ci si ritrova insieme medico e paziente e viceversa, due persone che in modo differente ma alleati combattono per una giusta causa comune, la salute: la vita.
Nell’antico giuramento di Ippocrate del sec. V a.C. si legge in alcuni versi: “Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, mi asterrò dal recar danno e offesa….”, nel giuramento moderno: “di curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna promuovendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza nella tutela della salute”… L’articolo 32 della Costituzione stabilisce nel 1° comma: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”…
Il tutto si può riassumere in quella frase pronunciata da un uomo, considerato giusto, saggio, un profeta, uno che sapeva “farci”, uno di sinistra – forse - , uno che era empatico, accogliente, amorevole, uno che ascoltava, uno che credeva senza cedere mai, uno che armava lo spirito per vincere sul male e amare la vita, uno che aveva uno Sguardo pieno di Misericordia per tutti, uno che ha dato la vita. Per chi non credente “uno togo”, per chi credente “Gesù il Figlio di Dio”: "Ama il prossimo tuo come te stesso”…
Allora è necessario che i medici possano stupirsi ancora della bellezza dello studio e della conoscenza della medicina, è necessario che i giovani medici ricevano esempio da coloro che vivono questo lavoro come missione, è necessario che i giovani medici siano educati da uomini di dimostrata eccellenza, ricordando le parole di Sergio Dalla Volta – Prof. della Cardiologia Accademica Italiana - : “Solo ad uomini di dimostrata eccellenza viene affidato l’incarico dell’educazione dei giovani”, è necessario suscitare quella passione per la medicina come servizio al prossimo, con la voglia di ampliare la conoscenza in funzione della vita, della salute, ricordando il primum movens e l’ultimum moriens, in quanto è destino per tutti che l’orologio prima o poi si fermerà; è necessario che i medici possano compiere nel migliore dei modi la propria missione senza intromissioni esterne, è necessario che lo Stato crei le condizioni migliori per i medici e quindi i pazienti.
Concludendo, ogni essere umano, qualunque sia il posto occupato nella vita e nella società, come persona e professionista, dovrebbe rispondere ad una sola domanda ben precisa: “qual è il doppio di sei?”
Chi scrive conosce bene la risposta e non è dodici come insegna la matematica…. Essa è talmente semplice da apparire scontata, ma diventa davvero difficile da vivere e applicare….
“chi ha orecchie per intendere… intenda”… “a buon intenditor poche parole…” … “ai posteri l’ardua sentenza…”…
Non si fa il Medico, lo si è senza se senza ma….