di Paolo Russo
Questo articolo è un tentativo di affrontare il tema della diversità secondo un punto di vista pedagogico.
Il termine educare rimanda alla filosofia platonico-socratica secondo cui la conoscenza deve essere "condotta fuori" da noi tramite la maieutica, letteralmente l'arte del far partorire, ovvero condurre fuori, e-ducere.L'educare quindi equivale a rendere il soggetto più consapevole rendendolo più originale, più creativo e più libero.
Emily Dickinson sosteneva che "vi è sempre una cosa di cui sentirsi grati: essere se stessi e non qualcun altro". E. Guidolin scrive in "esistenza ed educazione" che "l'Adulto è colui che è madre e padre di se stesso, è colui che è solo.
A vent' anni si è prigionieri delle delusioni giovanili. L'avanzare del tempo assume una funzione catartica liberatoria sia dei condizionamenti sia delle illusioni che li accompagnano", intendendo il senso intimo dell'educazione in questo motto: "nascere vecchi e morire giovani".
E' da queste premesse che vorrei riflettere con il lettore sul significato dell'essere umani. Del prendersi cura delle nuove generazioni in quel viaggio senza fine verso la conoscenza di sè.
È l'atteggiamento verso la propria consapevolezza che rende capaci di vedere gli altri, è in questa configurazione che le persone diventano individui e non "diversi".
Quanto è doloroso accettare l'altro se questo significa riconoscere se stessi? Riconoscerci un ruolo che non vorremmo avere e da cui sfuggiamo nella debolezza di un senso sociale a cui con ipocrisia ci adattiamo. L'omologazione infatti ci illude di essere "normali", ci protegge da quel confronto inevitabile con l'indicibile e con i nostri limiti rendendoci meno scomodi e meno autentici.