Claudia Piccinno è una figura molto importante nell’attuale panorama letterario italiano. È poetessa e scrittrice, nata a Lecce, ma residente in provincia di Bologna. Da sempre si adopera per promuovere la poesia basata sul rispetto e sull’apprezzamento delle differenze, lottando contro i pregiudizi di genere. La sua opera è stata pubblicata in molte riviste del settore in Italia e all’estero. È membro della Consulta immigrazione italiani all’estero per l’AIM. È Direttrice per l’Europa del Word Festival of Poetry, ambasciatrice culturale di Istanbul Sanat Art Association e riconosciuta, nel 2017, come “World icon for peace” per WIP nella città di Ondo, in Nigeria. Ha ricevuto premi importanti in concorsi di poesia nazionali e internazionali tra cui la Stelae of Rosetta, World Literary Prize di Istanbul 2016 e la benemerenza civica, Ape d’argento nel 2019 dal Comune di Castel Maggiore (Bo). Ha tradotto molti autori dall’inglese all’italiano. Le sue poesie sono state tradotte in varie lingue. Molteplici le sue pubblicazioni. L’ultima silloge poetica dal titolo “Sfinge di Pietra” vedrà luce tra poco.
- Il tuo nuovo lavoro “Sfinge di Pietra” affronta la misteriosa superficie della línea di confine che delimita quel che è intimo e quel che invece è estrinseco, esattamente come avviene nella metafora che usi nel titolo. Ci puoi parlare del processo creativo della tua nuova silloge dalla genesi fino alla sua pubblicazione?
La prima parte della raccolta comprende una ventina di componimenti scritti durante l’isolamento a cui la pandemia ci ha costretto la scorsa primavera. Le restanti liriche sono precedenti, alcune sono stralci di poesie pregresse che si collocano nel filone della sfinge. Non a caso, la mia prima raccolta, edita nel 2011 si chiamava La sfinge e il Pierrot. Ma se lì affrontavo il tema del doppio, questa volta mi sono concentrata, mio malgrado, sul solidificarsi di una voce univoca, quella della sfinge sebbene caratterizzata da ossimorica compresenza di stasi (la pietra, il dolore che ci mura in casa...) e il girovagare (sia pure metaforicamente, attraverso il sogno e lo stupore).
- Ipazia di Alessandria, rappresentata nella splendida copertina dell’artista Immacolata Zabatti, cosa significa per questa tua nuova raccolta poetica?
Ipazia, filosofa e scienziata, scopritrice e studiosa, riuscì a ottenere un forte peso politico e culturale in un’epoca in cui le donne non avevano la possibilità di distinguersi nella scienza. Fu uccisa probabilmente perché la conoscenza non doveva essere appannaggio delle donne e lei, oltre che dotta, era una brillante divulgatrice di saperi. L’opera della bravissima Zabatti, richiama sì l’Egitto, ma richiama soprattutto l’indipendenza di giudizio ch’è il lascito migliore che qualsiasi libro possa produrre. La figura di Ipazia, donna open minded e tollerante, ci dimostra come la conoscenza sia l’unica chiave per abbattere i pregiudizi e ipotizzare una società sana, incontaminata. Ipazia non fece leva sulla sua bellezza per affermarsi, ma fece dello studio una ragione di vita, e in questo sento di somigliarle. “Se mi faccio comprare, non sono più libera, e non potrò più studiare: è così che funziona una mente libera” (Ipazia, in Ipazia Vita e sogni di una scienziata del IV secolo).
- Nelle poesie presenti nelle tue molte sillogi passi dal “Perdersi dietro la paura” al correre libera come “Un cavallo senza briglie”, dall’ “Invocare pace” e dal bisogno di essere amata da Dio (“Amami Dio”) alla necessità di superare il dolore che viene dall’abisso della nostra anima, “dal nulla”. Che funzione pensi abbia la poesia?
La poesia non serve a niente, dice il nostro amico Dante Maffia. Eppure si impone con prepotenza in alcune fasi della nostra vita, scrivere versi è un’urgenza che avverto quando sono più turbata. Credo sia inscindibile dallo stupore e dall’ascolto, ma se per animi afflitti è terapia, nella mia vita è un patto di fiducia, se leggo poesia, respiro bellezza; se la scrivo mi nutro di parole in combinazioni sempre nuove, mi alimento di sonorità mista a semantica, creo strade alternative che mi rivelano infinite possibilità di espressione e libera interpretazione. La poesia ha una funzione pedagogica: è un antidoto all’omologazione, ci aiuta a sviluppare le nostre potenzialità espressive, e favorisce un sano pensiero divergente.
- La poesia è figlia dell'ispirazione o del lavoro?
L’esercizio è importante, ma la poesia per sbocciare necessita d’ispirazione. Il labor limae viene dopo e occorre certamente una solida preparazione; ma il tecnicismo fine a se stesso, non basta.
- Pensi che il poeta si evolve nella sua scrittura? Com’è cambiato il tuo linguaggio poetico negli anni?
Il poeta si evolve se si mette in discussione, lo si fa in un solo modo: leggendo. Certo le esperienze di vita e l’ascolto sono ottimi espedienti di crescita, ma occorre leggere tanto, occorre uscire dal proprio guscio narcisistico e rispettare la parola.
La mia scrittura è cambiata dacché ho iniziato a tradurre altri poeti, leggere i loro testi mi ha risvegliato associazioni di pensiero, mi ha ricordato studi di tanto tempo fa, mi ha fornito spunti di approfondimento lessicale e metrico. Credo che la poesia sia come una pianta di rose che vada curata.
- Qual è lo scopo che ti piacerebbe si raggiungesse attraverso la tua poesia?
La poesia può diventare strumento di conoscenza, quando a Istanbul ho letto la mia poesia su Nawal Soufi, ho potuto raccontare la sua storia. La poesia può svolgere funzioni trasversali, raccontando di temi dei nostri tempi, infatti, diventa un modo di fare memoria. Mi piacerebbe che tante persone comuni si possano riconoscere, che la gente possa ritrovarsi in quello che i miei versi testimoniano, mi piacerebbe che la poesia non resti a uso esclusivo degli addetti ai lavori, sarebbe bello incentivarne la passione nei lettori sin da piccoli, senza forzare l’apprendimento mnemonico. Rodari è stato un esempio di come la poesia non solo possa insegnarsi a tutte le età, ma di quante altre nozioni si possano divulgare attraverso la poesia. I suoi versi spiegano ai piccoli, i concetti più disparati, dalla geografia all’ortografia, dall’astronomia alla cibernetica.
- Attualmente ti dedichi all’insegnamento. Com’è l’approccio dei tuoi ragazzi con la poesia? Cosa consiglieresti ai giovani che iniziano a scrivere poesia?
Insegno nella scuola primaria e ho negli anni sviluppato un modo interattivo di fare poesia, sulla falsariga dei Draghi Locopei di Ersilia Zamponi. Ai bambini piace moltissimo. Mio riferimento fisso è Rodari, ma utilizzo anche i suggerimenti di Bernarde Friot che ho avuto la fortuna d’incontrare personalmente. Ogni settimana dedico un’ora al laboratorio di poesia, quest’anno ho la quinta e ci dilettiamo non solo a scrivere poesia, ma a leggere e a comprendere le funzioni delle figure di suono e felle figure di stile. Il laboratorio di poesia è uno spazio di assoluta libertà creativa, ma li educa anche all’ascolto e al rispetto dell’espressività altrui. Ai giovani che iniziano a scrivere suggerisco sempre di leggersi dentro, ma di non restare fermi, suggerisco di allargare lo sguardo agli altri, perché la scrittura è movimento, non è mai stasi. E ovviamente li invito a leggere i grandi poeti, a ricopiare versi su un diario personale, ad avere rispetto della Parola, a fidarsi della Parola che gli suona dentro. Celan diceva che la poesia è come una stretta di mano, perché non regalarci dei versi in questi momenti d’isolamento e tristezza?