di Virginia Murru
In questi drammatici anni di pandemia certamente si è riflettuto con maggiore razionalità all’esigenza di unione tra i popoli europei, l’emergenza sanitaria scatenata dal Covid-19 ha in qualche modo reso più rigidi i confini, per ovvie ragioni, ma sul versante umano e sociale si è avvertito un maggiore senso di solidarietà e pragmatismo.
C’è stato sostegno sul versante sanitario, scambi di esperienze e risultati in termini di ricerca scientifica negli ultimi anni, fra i più tragici nella storia del continente, e dell’intero pianeta. Considerati i danni e il clima di emergenza, sono stati definiti da autentico conflitto, un assedio che ha lasciato sul campo milioni di vittime.
In un discorso della Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, nel settembre scorso, sono evidenti queste considerazioni:
“Ma se volgo lo sguardo all’anno che è trascorso e se osservo lo stato dell’Unione attuale, vedo un’anima forte in tutto quello che facciamo.
Robert Schuman ha detto: l’Europa ha bisogno di un’anima, di un ideale e della volontà politica di perseguire questo ideale.
Negli ultimi dodici mesi l’Europa ha tradotto in realtà queste parole.
"Nella più grande crisi sanitaria mondiale degli ultimi cento anni, abbiamo scelto di agire insieme.”
L’Ue e le sue istituzioni, in questa guerra con un nemico subdolo e invisibile ha certamente acquisito un senso più profondo - e non solo per il sostegno economico (tramite i provvedimenti riguardanti il Recovery Fund) rivolto a tutti gli Stati facenti parte dell’Unione, col fine di rendere meno drammatica l’emergenza sanitaria ed economica, ma per quel sentirsi ‘famiglia’ in un’epoca così incerta e travagliata.
Essere europeisti è in primo luogo una questione d’orgoglio, senso di appartenenza ad un continente che ha radici storiche e culturali millenarie, i cui semi sono stati sparsi ovunque nel mondo. Questa è la trama e l’ordito che unisce e crea le fondamenta per l’Unità di questo grande territorio, nel quale la Storia ha scritto le sue pagine più importanti e significative.
Basterebbe del resto riflettere alla storia Romana, per comprendere che i popoli europei, già due millenni fa, erano parte integrante di una grande civiltà: forse proprio da qui è partita la questione dell’identità culturale. I Romani svolsero un ruolo davvero rivoluzionario, che mirava in definitiva all’omologazione delle caratteristiche sociali tramite il loro concetto di Civitas.
Insomma, l’Europa unita non è stato solo un progetto ben definito dai padri fondatori dell’Unione Europea, in primis di Altiero Spinelli, il quale, insieme ad altri due intellettuali italiani, redasse il Manifesto di Ventotene. Questo grande progetto è il ‘là’ dell’Unità, un autentico atto costitutivo dell’Europa unita, che nasce dalle macerie di regimi totalitari e oppressivi, causa diretta del secondo conflitto mondiale.
Il sogno di unire i popoli europei in una federazione di Stati, emerge soprattutto dalla grande esigenza di pace e stabilità, ancora prima della fine di quella guerra sanguinosa, e a questo fine mirava un altro dei padri fondatori dell’Europa unita, Winston Churchill.
Churchill era stato Primo ministro nel Regno Unito, proprio in uno dei più nefasti periodi della storia europea, ossia gli anni ’40, e fu uno dei primi ad auspicare l’Unione degli Stati in Europa, per creare le basi di una pace duratura, senza altri deragliamenti conflittuali, o nazionalismi pericolosi.
Essere europeisti significa mettere in fila questa rete di rimandi storici, ricordare anche il discorso del 19 settembre del 1946 a Zurigo di questo grande statista, sulle ragioni dell’Unione europea:
“Dobbiamo ricostruire la famiglia dei popoli europei in una struttura regionale che potremmo chiamare Stati Uniti d'Europa, e il primo passo pratico consisterà nella creazione di un Consiglio d'Europa. Se, all'inizio, non tutti gli Stati d'Europa vorranno o saranno in grado di partecipare all'unione, dobbiamo ciò nonostante andare avanti e congiungere e unire gli Stati che vogliono e che possono.”
E’ evidente che, se avessero riflettuto su queste parole, i britannici non avrebbero votato in favore della Brexit, ma tant’è: la storia ha le sue porte girevoli, con eventi che non hanno corrispondenza in termini di pensiero e ideali.
Oggi ha ancora senso essere europeisti? Io penso che ci siano fondati motivi per credere ancora in questo sogno dei padri fondatori dell’Ue: ci consideriamo europei per quell’indefinito senso di appartenenza a questo continente, perché l’Europa che viaggia negli ideali in un unico senso di marcia, offre maggiori garanzie al presente e al futuro.
Essere europeisti, in spiccioli allora cosa significa? Certamente aspirare ad un ideale di concordia e prosperità, attraverso scelte e obiettivi comuni, e questo è possibile concretizzarlo realmente solo attraverso l’abbattimento dei nazionalismi che ancora imperversano in lungo e in largo nei tanti Stati europei.
Allontanarsi dal sogno comune europeo è piuttosto semplice, basta un referendum, com’è accaduto in Gran Bretagna nel 2016, e ci si allontana dall’Europa, pur restando geograficamente uniti. Ci si allontana non solo per quel che riguarda l’aspetto degli scambi commerciali, ma anche per quelli culturali e sociali, dato che, inevitabilmente, i confini rigidi diventano impedimenti, barriere, veti.
Queste sono le conseguenze del cosiddetto ‘euroscetticismo’, la mancanza di fiducia nelle istituzioni dell’Unione, una presa di distanza che divide, inesorabilmente. Gli europeisti credono nella condivisione delle sovranità nazionali, quale migliore indicazione per migliorare e difendere gli interessi comuni, dando la precedenza alla cooperazione e alla solidarietà tra le nazioni.
Essere europeisti perciò vuol dire prendere coscienza dei comuni ideali democratici, dello Stato di diritto, del diritto del singolo e parità di genere. Ma anche per la tutela delle minoranze etniche e linguistiche del continente. Perché in fin dei conti significa rivolgere lo sguardo al di là di noi europei, farsi strumento di pace nelle vertenze internazionali, accogliere gli stranieri in difficoltà, e non respingere per puro egoismo.
Sono europeista quando visitando uno dei Paesi dell’Unione mi sento in qualche modo a casa, perché si avverte il sentire comune, la condivisione degli ideali civili, da nord a sud. Si può soggiornare senza disagi perché usiamo la stessa moneta, e ormai su tanti aspetti della vita, ci conformiamo alle stesse leggi, rispettiamo gli stessi valori.
Abbiamo un modello di progresso umano, culturale ed economico comune, per questo sentirsi europeisti non contrasta con i propri ideali: ci unisce infatti un modello di sviluppo in grado di produrre un quarto della ricchezza mondiale. L’Europa è una forza che non teme confronti, anche con le economie più blasonate. Nei meeting internazionali la parola dell’Unione europea ha un peso notevole.
E c’è una grande attenzione all’ambiente in cui viviamo, al controllo delle emissioni di CO2, ossia delle fonti inquinanti, che determinano squilibri climatici e cambiamenti dannosi nell’ecosistema.
E allora non è facile pensare di trovare ragioni nel versante opposto, quello in cui ristagnano ideali di sovranismo ad oltranza, che vedono l’Unione Europea come una minaccia per la sussistenza del potere nazionale incontrastato. E’ in queste sabbie mobili dell’immobilismo, della tendenza ad arroccarsi nei propri confini, che rischia di vacillare la concordia e la pace, oltre a costituire un freno allo sviluppo degli scambi in tutte le direzioni.
Pensare alla disgregazione dell’Unione per creare in Europa una giungla d’interessi che inevitabilmente creerebbero tensioni - conflitti interni non facilmente sanabili senza Autorità preposte al controllo e alla vigilanza - non credo faccia parte del futuro di questo continente, né dei suoi interessi, in ogni ambito.
Tornare al passato dunque, in regresso ai primi decenni del Novecento? Per quale fine, quale progresso, quale equilibrio? Perché la smania di cancellare la moneta unica, che al di là delle ragioni economiche rappresenta uno strumento di Unità?
Difficile rispondere. Nelle ragioni dei sovranisti finora non c’è un futuro credibile. La Storia ci ha insegnato che quella non è la strada.