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di Virginia Murru

La storia di questo eccezionale boxeur è una vergogna tutta italiana. Grande pugile, campione dei pesi medi e medio-massimo, nato nei primi anni del Novecento. Le vicende che riguardano Jacovacci hanno rimandi leggendari, nonostante l’epoca in cui è vissuto e la struttura di una società asservita ad un regime autoritario, quale il Fascismo poteva essere tra gli anni ’20 e ‘40.

Dopo un secolo, l’Italia, che prima ha fatto di tutto per ignorare il suo talento, lo ha dimenticato. E’ solo grazie a Mauro Valeri che le reali vicissitudini di questo campione sono state portate all’attenzione della gente, e riscritte secondo criteri di obiettività. Valeri ha infatti pubblicato un libro di circa 500 pagine, “Nero di Roma”, edito da Paombi, nel quale ha ripercorso tutte le tappe e i traguardi dell’esistenza di questo straordinario sportivo italo-congolese.

Ne è scaturito una sorta di ‘processo’ storico, civile e sociale, per dire pane al pane, e rivedere la Storia con una lente più chiara. Quella che si conosceva, anche attraverso il filmato dell’incontro di boxe decisivo per il titolo italiano ed europeo, era una verità ‘manomessa’, scassinata e manipolata; un po’ bastarda.

Un documentarista, Tony Saccucci, partendo da ‘Nero di Roma’, e in collaborazione con l’Istituto Luce, ha poi portato lo scandaglio fin dentro i fondali di questa vicenda, denunciando gli abusi del regime, i cui tecnici, all’epoca, spezzarono la parte finale del video dell’incontro, proprio quando il giudice alza in alto il braccio del vincitore: ossia quello di Jacovacci..

Non si doveva sapere troppo in giro che uno sportivo di colore era il vero campione: era italiano ‘solo’ a metà.. Insomma, un abominio del più perverso razzismo. Il film-documentario è uscito nelle sale solo di recente.
Leone Jacovacci era un meticcio venuto al mondo esattamente nel 1902, in un paese africano, il Congo indipendente – anche se era in realtà un feudo del Belgio – da padre italiano e madre congolese, una principessa del posto, figlia del Capo Tribù.

Il padre, Umberto Jacovacci, persona istruita (era agronomo-ingegnere), riteneva che il piccolo dovesse crescere a Roma, dove egli stesso aveva vissuto, così lo condusse proprio qui, affidandolo alla guida dei genitori, i quali faranno del loro meglio per impartirgli una buona educazione, ed un’adeguata istruzione.

Compito tutt’altro che facile. La società romana dei primi decenni del Novecento non era quella imperiale, dove nelle strade era possibile trovare non solo barbari, ma persone che provenivano da tutti i paesi del Mediterraneo. Un meticcio, pertanto, soprattutto se facente parte della borghesia, poteva facilmente diventare oggetto di discriminazione. E per questa ragione la famiglia di Leone finì per trasferirsi nelle campagne del Viterbese.

Senza saperlo, il bambino viveva già la sua prima esperienza di rifiuto ed emarginazione.
Nella personalità di Leone, fin da bambino, c’era però un forte istinto di libertà, e la tendenza a svincolarsi dalle regole che gli risultavano oppressive, per questo fuggì in diverse occasioni dagli istituti in cui era stato condotto per ragioni di studio. La severità, il clima di chiusura e forse di solitudine e squallore sul piano affettivo, non si confacevano al carattere irrequieto ed esuberante, non propriamente alieno alla disciplina, ma certamente insofferente alle regole dei collegi romani.

Dallo sguardo diretto e intenso era possibile intuire che non avesse temperamento remissivo, rispettava chi gli stava intorno, ma aveva necessità di respirare liberamente senza eccessive imposizioni.
Come se il richiamo latente dell’Africa fosse un’ombra discreta che lo accompagnasse e ne guidasse i gesti; non intendeva reprimere il senso di quell’appartenenza lontana. Così, quell’identità divisa a metà tra Italia e Congo, sembrava in perenne conflitto dentro di lui.

Il padre rientrò a Roma nel 1916, e il bambino, per un breve periodo sembrò più sereno, ma l’istinto di allontanarsi per rincorrere un vago sogno d’indipendenza era insopprimibile: era attratto dal mare, e dentro l’animo misterioso del ragazzino, forse inconsciamente, si aprivano i vasti orizzonti di libertà delle foreste africane.

Cercava comunque evasione. E sarà proprio il mare, voce ineludibile che chiama con prepotenza, a spingerlo a raggiungere Napoli, e qui a imbarcarsi in un mercantile inglese con la ‘qualifica’ di mozzo. Non se ne curò, l’importante era andare, ogni maschera poi era valida, pur di lasciare il confine di una patria che gli aveva mostrato il volto peggiore, quello dell’indifferenza, anzi peggio: dell’ostilità appena mitigata da un velo di tolleranza (e ipocrisia).

Quello è il vero confine che deve abbandonare, l’Italia non è stata un nido accogliente, una patria della quale essere fieri. Nelle strade, nelle relazioni umane, la serpe del rifiuto strisciava silente, e Leone, sia pure adolescente, avvertiva l’acre sapore di quel veleno. Lontano dunque, fuori da quello squallore falsato da perbenismo.
Era stata probabilmente per una questione di rivalsa, che nel corso della prima guerra mondiale, Leone si era arruolato con l’esercito britannico. Del resto si era lasciato alle spalle gli anni vissuti a Roma e dintorni, e aveva perfino cambiato identità: via anche il nome italiano. Da allora il rapporto con l’Italia sarà di odio-amore, diventerà il soldato Walker.

Eppure scorre dietro di lui un sottile soffio del destino, questa volta la boxe fungerà da trait d’union per un ritorno in Italia, anche se non immediato.
La sua seconda patria, forse sempre inconsciamente, lo richiama a sé, e Leone, che non poteva sopprimere quel vincolo di sangue, cercherà, nel volgere di pochi anni, di rifare un nodo stretto a quel legame: invano.

Finita, dopo la guerra l’esperienza nell’esercito, si ritroverà a Londra nei pressi del Tamigi, quando verrà notato da un allenatore di boxe, che aveva necessità di un pugile di colore per sostituire quello che aveva disertato l’appuntamento col ring. Lo aspettava una sfida con un campione britannico, e Leone, che aveva solo un fisico asciutto e prestante, naturalmente dotato di ottimi muscoli, rischia e accetta l’improvvido incontro.
Pur essendo a digiuno di pugilato, con un allenamento approssimato, vinse l’incontro: ed eccolo il destino, a contare i suoi passi, a dirigerlo verso la gloria delle sfide combattute e vinte con orgoglio, ma anche sofferte, a causa di quel vecchio continente che non gli perdona di avere una madre africana.
Lascia Londra proprio per questo, perché ai pugili di colore non è consentito aspirare ai titoli più ambiti.

Delusione repressa, e altra migrazione, questa volta in Francia, che al contrario dell’Inghilterra sembra un porto franco. I pugili africani sono infatti apprezzati per l’impeto e la grinta che esprimono sul ring. Non importa se deve cambiare nome, diventando Jack (tiene il cognome Walker, però), l’importante è vivere alla pari, stringere mani meno ipocrite, confrontarsi con una dignità senza riserve di razza. Era quello che cercava, la dignità ti fa sentire in patria ovunque, senza compromessi vili, senza piegarti in obbedienza alla presunzione della superiorità.

Si sentiva a casa, Leone a Parigi, stimato e apprezzato per le sue indiscutibili doti professionistiche nella boxe, riusciva così con forza ad affermarsi, ad andare oltre il filo spinato dell’intolleranza, a stabilire amicizie e relazioni durature. Aveva però dichiarato d’essere un afro-americano, e non riuscirà a provarlo, perché gli mancano i documenti. Risolse così di rientrare in Italia, sotto mentite spoglie, ma non per molto: decise infatti che di maschere ne aveva abbastanza. Confessa di essere italiano: “mi chiamo Leone Jacovacci..”

E sulle prime i connazionali sono entusiasti di lui, perché sembra figlio di un cielo amico, che lo ha messo al mondo per vincere, già in retrovia. Leone è in effetti ben temprato fin da piccolo per essere un combattente, anche nelle strade storte e dissestate della vita. Non conosce arrese, neppure verso il subdolo nemico che lo lusinga, facendogli però sentire fin nelle ossa il “peccato” dell’origine.

Era leone di nome e di fatto. Si batteva davvero come un leone nell’arena, e non graziava nessuno, ben raramente subì disfatte sul ring. La vittoria, il senso di supremazia sull’avversario, sembravano scritte sui muscoli delle sue braccia, negli occhi pieni di sfida e smania di riscatto. Liquidava uno per uno i campioni europei dei pesi medi e medio-massimo. Sembrava invincibile come Sansone.

I titoli conquistati tuttavia non gli erano riconosciuti dalla Federazione italiana della Boxe. Con una serie di pseudo ragioni che partivano dal colore ambrato della sua pelle, e finivano nel delirio della razza ariana - della quale, per esigenze di regime, la stirpe italica faceva parte – lo si teneva ai margini, nonostante le eccezionali doti che aveva manifestato.
Milano contendeva a Roma il ring degli incontri più rilevanti in ambito europeo, e vantava campioni di primo livello; Leone era il ‘nero di Roma’, e la città pertanto lo considerava il proprio campione. Milano gli opponeva Mario Bosisio, campione italiano in carica.
Si organizzò un incontro ‘valido’ per il titolo italiano a Milano, durante il quale Leone prevalse su Bosisio, ma la vittoria, dai tre giudici milanesi, fu assegnata proprio a quest’ultimo. Era già scritto. Per fare tacere il coro di voci nella capitale, che parlava di sopraffazione e ingiustizia, il partito Fascista organizzò un’altra sfida a Roma. Il titolo italiano, e anche quello europeo, potevano ancora essere contesi (detentore dei due titoli al momento era Bosisio) dai due sfidanti che si erano affrontati a Milano qualche mese prima.

Leone ebbe il sopravvento, davanti a 40 mila spettatori, non c’erano dubbi sulla superiorità e la classe che lo avevano sempre contraddistinto. Diventa il 4° Campione Europeo (in Italia), ed è un italiano a tutti gli effetti a vincerlo, anche se per il diritto di cittadinanza dovrà lottare con tutte le sue forze, lui è un indomito lottatore. Finalmente, dopo 4 anni di dure battaglie, mentre i funzionari pubblici esercitavano il più bieco ostracismo, riuscì a farsi riconoscere cittadino italiano.

Sa che la sua lotta per la dignità non è mai finita, la sua Italia è stata intaccata, ‘punta’ dall’aspide: il razzismo. Bisogna prenderne atto e difendersi. Ma come?
Come? E’ un campione, non c’è sfida che vada oltre i suoi limiti, lo sport, la boxe, sono il suo riscatto e il legittimo lasciapassare, prima o poi la sua patria razzista se ne farà una ragione. Era la giusta equidistanza tra orgoglio e giustizia.
Ma tant’è: il contorto animo umano non conosce limiti quando si prefigge di annientare il proprio simile.

I titoli legittimamente conquistati non gli furono mai riconosciuti, il filmato dell’incontro con Mario Bosisio, fu letteralmente manipolato, per evitare che la gente gli riconoscesse i meriti conquistati. La stessa Gazzetta dello Sport, il giorno che seguì all’incontro con Bosisio, dopo la clamorosa vittoria di Leone, titolò: “Non può essere un nero a rappresentare l’Italia all’estero” – ossia la gola profonda del Fascio aveva parlato.
Ecco la vergogna del sopruso, dell’imbroglio, la tendenza del regime a cambiare le carte in tavola.

Non è mia intenzione addentrarmi in considerazioni di carattere antropologico, e tanto meno fare dissertazioni sulle cause delle leggi razziali. Forse la responsabilità non è però riconducibile solo al regime, vi sono ragioni di fondo, di indole del popolo italiano, che il razzismo lo ha sempre avuto in stato di latenza dentro l’anima.

La civilissima Cultura Latina non è stata un esempio in questo senso, dato che definiva “barbare” le popolazioni del Nord Europa, ritenute inferiori, rozze, e non al passo delle loro conquiste. Nemmeno i sardi sono stati risparmiati dai Romani dell’epoca, chiamarono “Barbaria” (da qui il toponimo Barbagia) le regioni dell’interno dell’isola, solo perché occorsero anni per avere ragione del loro istinto ribelle e autonomo, e lottarono strenuamente per ostacolarne la conquista.

Dopo le delusioni in Italia, ancora una volta Leone decide di andarsene, troppi dolori e umiliazioni, non si poteva tollerare. Torna in Francia, poi sopraggiungono gli eventi dell’occupazione nazista, si arruola di nuovo nell’esercito inglese, e combatte con questa divisa anche in Italia. Poteva forse arruolarsi come camerata nei battaglioni del Fascio?

Fascista, nonostante quello che si è scritto al riguardo, non lo era mai stato. Frattanto, aveva trovato il tempo di formare una famiglia, e, tanto per cambiare, anche questa era clandestina: la moglie era di origini ebree. Da una fuga rocambolesca all’altra, la sua vita. Dopo la guerra diventò portiere di un palazzo a Milano, in via Ghibellina. L’Italia lo ringraziò così, non un riconoscimento per i momenti importanti di gloria che aveva saputo dare allo sport italiano. Fu scaraventato nella deriva dell’oblio.

Le strade, le piazze della Vita, sono luoghi in cui gli esseri umani si misurano senza ricorrere ai piedistalli di razza, o presunte superiorità. Sono i luoghi in cui alla dignità si dà del tu.
Sono – dovrebbero essere – luoghi dell’Umanità in cui i valori autentici dialogano e s’incontrano, qualunque sia il colore che i geni hanno deciso di dare alla pelle di un uomo.
E non si argomenta intorno ad un passato poi così remoto, l’inquisizione sulla razza è andata ben oltre, lo sappiamo bene, ce la portiamo ancora sotto i piedi, a volte velata di false concezioni.

Il razzismo è stato ovunque, anche dopo la seconda guerra mondiale, ne sanno qualcosa gli afro-americani, e non solo. Il dopo guerra non è stato lo spartiacque che si sperava per l’Occidente, che aveva subito una dura lezione dietro il filo spinato dei lager.

Eppure l’Umanità non ha imparato nulla dal terribile squallore in cui ha scaraventato i diritti umani, nulla da quell’abominio. I lager, con i loro rituali infernali e altari capovolti, erano i luoghi del delirio in cui in realtà si immolava e processava il valore più assoluto dell’essere umano: la dignità.

 

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