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di  Lorenzo Rossomandi

 

Non sto mettendo in dubbio la paternità di nessuno, non preoccupatevi.
Vorrei solo sapere se ritenete che i figli siano da considerare alla stregua di una proprietà privata dei genitori oppure...

Molti avranno letto sicuramente la bellissima poesia di Khalil Gibran.
E quindi ripropongo la domanda: Ma i vostri figli sono “vostri”?

Da padre di tre figli ho maturato una visione molto vicina a quella di Gibran. I nostri figli non ci appartengono. Noi siamo custodi di quei pargoli, dobbiamo sentire la responsabilità del loro crescere sani di salute e sani di principi. Dopodiché al nostro ruolo devono essere posti dei limiti.
Un figlio non è un ammasso di carne da plasmare a nostra immagine e somiglianza. O un essere al quale debba essere imposta una strada da percorrere che il genitore ritiene migliore di altre senza tenere in considerazione le inclinazioni del figlio.
Arrivando al punto, ciò che fa di una coppia dei bravi genitori non sono la stabilità economica, la classe sociale o la cultura degli attori. Penso che i bravi custodi non siano necessariamente rappresentati da due esseri umani che hanno gli stessi geni del figlio, come, del resto, non siano necessariamente ben rappresentati solo da coppie di persone di sesso opposto.
Sento già qualche grado di temperatura aumentata da parte di qualche lettore che vorrebbe dire la sua.
Parlando nello specifico di genitori non eterosessuali, si possono fare molti distinguo. Ad esempio alla domanda: è giusto che una coppia omosessuale possa avere “in custodia” un figlio? La risposta per me è “sì”. Se però proseguiamo, e la domanda diventa: è giusto che debbano fare di tutto perché il figlio debba avere i loro “geni”, allora le mie certezze cominciano a vacillare. Soprattutto pensando a quanti bambini sono in cerca di genitori (per abbandono o per decisione di un giudice) e dell’affetto che queste coppie potrebbero regalare loro. Ritengo che ostinarsi sulla prima scelta sia una forma di egoismo difficilmente comprensibile. Nel secondo caso, escludere la possibilità per un bambino di poter godere dell’affetto che una coppia potrebbe donargli, solo perché omosessuale, mi sembra una forzatura in senso opposto.
A coloro che obiettano che la crescita di un bambino “custodito” da una coppia omosessuale possa essere accompagnata da una complicanza da tenere sotto controllo, perché potrebbe ingenerare problemi causati da una situazione “anormale”, obietto che può accadere, invece, che questo bambino cresca con uno spirito di tolleranza più spiccato.
Mi spiego.
Sul figlio di una coppia etero non viene messa alcuna attenzione, o, per lo meno, ciò viene fatto solo in casi estremi. Quindi, se il bambino cresce in un ambiente violento o che fa dell’intolleranza o la violenza il proprio linguaggio, probabilmente si radicheranno in lui atteggiamenti che potrebbe farci trovare nella nostra società un cittadino problematico in più. Mi chiedo se questo sia giusto e se quelli da tenere sotto controllo debbano essere solo quelli di coppie “non standard”.
Insomma potremmo arrivare al paradosso che sarebbe più opportuno capire e osservare i metodi educativi delle coppie “etero”.
Ovviamente queste riflessioni non vogliono essere che uno spunto alla riflessione e non hanno niente a che fare con lo studio di natura sociologica e nemmeno uno psicologica.
Il mio parere è tranquillamente sindacabile e tutt’altro che immodificabile.
Ma se avete delle opposizioni o osservazioni da fare evitate di farlo tirando in ballo motivi religiosi o valutazioni di opportunità o meno legata al buon costume.
Parliamo di vite di persone vere, non di sesso degli angeli.

 

 

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Info Autore
LORENZO ROSSOMANDI
Author: LORENZO ROSSOMANDI
Biografia:
Mi chiamo Lorenzo Rossomandi e sono nato a Firenze nel 1967. Imprenditore, amante di musica Jazz (tanto da provare a suonarla); sono sposato, con tre figli. Scrivo sulla mia pagina Facebook racconti e pensieri per assecondare la mia passione per la scrittura, per riflettere e far riflettere. Ho all'attivo tre romanzi sempre riguardanti temi sociali importanti. Nei quali cerco di denunciare indirettamente i mali sociali, incentivando alla resilienza, allo spirito organizzativo, collaborativo, corporativo.
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