di Lorenzo Rossomandi
C’è stato un tempo in cui credevo fermamente nella “concorrenza”. Ero convinto che metterci in competizione tirasse fuori il meglio di tutti e che solo così si potesse crescere e migliorare.
Non avevo del tutto torto. Ma non avevo neanche del tutto ragione.
Sarà perché mi sto avvicinando all’età in cui si diventa pompieri, ma mi rendo sempre più conto che la concorrenza non faccia altro che spingere le persone verso il limite estremo del lecito e del giusto e a volte invitarle ad andare oltre.
Cos’è che porta molte aziende a continuare a produrre oggetti o a mantenere sistemi produttivi che palesemente sono disastrosi per l’ambiente?
Cos’è che sempre più spesso le spinge a opporsi al rispetto delle regole previste dalla legge? A sfruttare le persone, a usare la slealtà fiscale come strumento aziendale?
La concorrenza o, per meglio dire, la competizione.
La paura di aumentare troppo i costi, e quindi di diminuire i profitti a causa della conseguente perdita di competitività.
Ma c’è da dire che questo sistema porta anche ad un vantaggio per il consumatore, il quale ottiene i prodotti che gli servono ad un costo più basso, senza pensare, però, che per questo risultato si creano una serie di pericolose situazioni.
Un esempio: senza scomodare i bambini asiatici che producono palloni da calcio, immaginate di essere a casa e non vi vada di cucinare e neanche di uscire. Decidete di usare un’app che avete già usato un paio di volte per ordinare “on line” una bella pizza. Vi ricordate, però, che l’ultima volta non siete rimasti soddisfatti perché la pizza era arrivata fredda. Quindi cambiate app, perché un vostro amico vi ha detto che lui si è trovato bene con un’altra.
Ed in effetti questa volta va proprio bene. La pizza arriva veloce e ancora fumante; ma mentre la gustate, dovreste pensare che questo servizio è il frutto di una situazione che vede ragazzi che sfrecciano come saette, rischiando l’osso del collo, con i loro scooter o bici elettriche, che puntano al raggiungimento di obiettivi sempre più alti di numero di consegne e di velocità. Talmente alto che spesso chiudono la giornata senza raggiungerli, portando a casa soli pochi spiccioli.
E voi vi lamentate del servizio!
E questo vale per la logistica di quasi tutti gli acquisti “on line”. Persone che passano ore in magazzini a effettuare operazioni alienanti, senza potersi permettere di alzare lo sguardo verso un collega, con i minuti contati per i propri bisogni. Per poi passare i pacchi ai “padroncini” che sfrecciano con i loro furgoni per le strade urbane con l’unico obiettivo di rispettare i tempi. Il paradosso è che ci arrabbiamo quando ci sfiorano pericolosamente a tutta velocità e quando li troviamo parcheggiati in doppia fila, ma li penalizziamo con recensioni pessime se ritardano di qualche minuto la nostra consegna.
Siamo una società schizofrenica. Urliamo indignati per l’indifferenza che gli alti papaveri dimostrano per il “climate change” e non riusciamo a fare a meno delle cose che inducono il sistema a provocarlo.
In altre parole sfruttiamo la “concorrenza” per avere quello che ci interessa e ci lamentiamo delle conseguenze che questa nostra esigenza provoca.
Ma c’è anche qualcos’altro che la “concorrenza” distrugge.
Pensate a ciò che si dice dei giovani: la frase ricorrente è che “non hanno spirito di sacrificio”.
A parte che non credo che esista un’epoca storica dove la generazione adulta abbia considerato quella più giovane migliore della propria, e questo dovrebbe insegnarci qualcosa, ma poi esiste anche un altro concetto che dovremmo comprendere: “non siamo tutti uguali!”
Non siamo (per fortuna) tutti intraprendenti, veloci, furbi, intelligenti. Non abbiamo tutti le stesse sensibilità, le stesse propensioni verso l’arte, la cultura o verso la, sempre più esaltata, capacità imprenditoriale o manageriale.
Chiedere ai nostri figli di essere sempre i migliori, di distinguersi sugli altri, di avere per forza successo, significa creare dei mostri di cinismo o dei frustrati.
Non accettare che un proprio figlio non sia in grado di essere un eccellenza in ciò che a noi piace, ma che mostri una spiccata predilezione verso qualcosa di meno sicuro economicamente, significa distruggere psicologicamente ragazzi e ragazze, indurli a pensare che siano “sbagliati”, che abbiano qualcosa che non va!
Quello che non va, in realtà, è la nostra ristretta concezione di “successo”.
Per un genitore che sogna per il figlio una grande carriera da luminare in campo medico, scoprire che invece egli ha maggior propensione ad occuparsi dei più disagiati, diventando un volontario della Caritas, è sicuramente vissuto come un fallimento.
Eppure bisognerebbe chiedere ai genitori di Gino Strada se siano o meno orgogliosi di ciò che ha fatto loro figlio. E non fermiamoci alla punta dell’iceberg. Tutti i medici, infermieri, portantini, magazzinieri che fanno parte di quelle organizzazioni sono persone che trovano la loro realizzazione nel fare del bene ad altri. Vivono nell’ombra, non hanno successo, rischiano di morire o ammalarsi tutti i giorni, non saranno mai ricchi economicamente, ma lo sono di sicuro moralmente.
Si può parlare di “successo”?
Se si sta sempre di più affermando il concetto di inseguire l’eccellenza per battere la concorrenza, è perché, a mio avviso, questa strada è quella più lineare e meno complicata da comprendere. Poche regole e chiarissime: Se sei più bravo, più capace e sopratutto più sfrontato riesci. Gli altri se ne facciano una ragione e, se riescono, sopravvivano. Ma senza far rumore, senza lamentarsi. Che essere i migliori significa anche non dover essere disturbati dalla mediocrità.