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Da circa mezzo secolo l’Italia da terra di emigrazione è diventata terra di immigrazione. Dagli anni settanta del Novecento c’è stata una mutazione, conseguente a nuove emergenze, che ha determinato diverse comunità a lasciare i propri Paesi per entrare in Italia.

Il benessere e le trasformazioni sociali hanno reso l’Italia meta ambita e terra di immigrazione, dove la disponibilità economica e una migliore scolarizzazione ha portato i connazionali al rifiuto del lavoro di determinati settori. Dalla componente immigratoria delle collaboratrici domestiche si è passati, negli anni, all’impiego degli immigrati nella pesca, in agricoltura, nell’edilizia e nell’industria, con provenienza dal Nord Africa e, negli ultimi decenni, dai Paesi dell’Est europeo. È un’immigrazione di basso impatto economico, che spesso nel lavoro dei campi e delle serre rasenta forme schiavistiche, che potrebbero sicuramente essere sostituite con adeguata tecnologia. A questa forma immigratoria di “manovalanza”, corrisponde un considerevole flusso in uscita di “cervelli”, giovani italiani laureati e specializzati, che qui potrebbero essere inseriti in settori quali la ricerca, ma in fuga verso l’America e diversi Paesi europei, che mirano alla competenza e al merito e offrono adeguate e brillanti opportunità.
Gli avvenimenti che stanno cambiando le sorti dei paesi nordafricani portano al coinvolgimento del nostro Paese, non solo come approdo “naturale” per i profughi in fuga, ma come Paese posto al centro di un Mediterraneo oggi più che mai scenario di politiche e diplomazie internazionali. Ci si pone la domanda: Quali nuovi modelli di sviluppo, di scambio e di dialogo adottare? Che risposta l’Occidente pensa di dare alla domanda di democrazia che viene dai paesi del Maghreb e del vicino Oriente? Quali nuovi orientamenti per le diplomazie, quali strategie? Quale ruolo gioca la dimensione religiosa? C’è convergenza, intesa come modelli simili di sviluppo, nei modelli dei paesi del Mediterraneo (della riva sud e della riva est) a quelli dei paesi della riva nord o al modello europeo in genere? Certamente no, perché ci sono disuguaglianze nello sviluppo e nella distribuzione del reddito, disuguaglianze di genere e disuguaglianze nell’esercizio dei più elementari diritti democratici.
Sebbene il processo di transizione demografica sia avanzato, non tutti i Paesi hanno effettuato la transizione demografica e pertanto le conseguenze negative della crescita demografica si possono attribuire all’impatto sullo sviluppo economico, sulla povertà e sulle disuguaglianze, sull’istruzione, sulla salute, sulla disponibilità del cibo, sull’ambiente e sulle migrazioni internazionali. Purtroppo i Paesi del Mediterraneo, pur avendo in comune una storia millenaria caratterizzata da scambi economici e culturali comuni, oggi mostrano elementi di differenziazione che hanno superato quelli di comunanza.
Si assiste ad un processo che tende alla convergenza dei Paesi del Mediterraneo, a struttura debole, verso i paesi a struttura forte, verso i modelli che contraddistinguono i paesi industrializzati della riva europea, ma questa non sembra verificata.
Un modello comune è basato sulla correlazione tra crescita, occupazione e attività di innovazione. I paesi del Mediterraneo, mostrano una elevata eterogeneità nella loro performance economica. Il modello nordico, essendo superiore sia per protezione sociale che per competitività, si colloca al primo posto, mentre quello mediterraneo all’ultimo.
Il modello economico considera quali indicatori la produttività, la variazione dell’occupazione, il tasso di disoccupazione e il debito pubblico. C’è correlazione tra crescita del PIL, crescita dell’occupazione, crescita del capitale umano e investimento in innovazione. Il modello mediterraneo è caratterizzato da valori sopra la media di disoccupazione femminile, spesa pubblica, debito pubblico e valori sotto la media della produttività e del reddito pro capite. Questo modello indica una presenza eccessiva dello Stato nell’economia, con alto livello di spesa pubblica e uno scarso dinamismo nel settore privato, con bassa spesa privata. Indicatori del modello sociale sono un’elevata disoccupazione, alta quota di persone a rischio di povertà, tasso di disuguaglianza nella distribuzione del reddito, insufficienza nell’istruzione e abbandono scolastico, scarso dinamismo del settore privato nelle attività di innovazione. Il fattore che li accomuna è l’esclusione sociale per inadeguatezza del sistema educativo. Il peso dello Stato è superiore alla media e i sussidi sono uno strumento inefficace per la lotta alla povertà. In questo modello non c’è piena convergenza.
Il modello è un modo di rappresentare e di interpretare la realtà. Allora, se modello significa qualcosa di ideale, qualcosa a cui tendere per analogia, adeguato sembrerebbe il modello sturziano, mettendo in pratica l’eredità dei suoi insegnamenti, riallacciandosi a tre sfaccettature del suo illuminato pensiero.
Per Sturzo l’istruzione è lo strumento primario nella battaglia contro la povertà; quindi investire in alfabetizzazione alla lingua, all’educazione civica e al patrimonio culturale e nella formazione al lavoro, con il contributo di scuola, Comune, sindacati e organizzazioni solidaristiche.
Pertanto coinvolgimento delle parti sociali in materia di istruzione e di povertà, non escludendo le donne, formazione imprenditoriale e sostegno alle qualifiche. La creazione di un ambiente favorevole alla innovazione, e in cui educazione e sviluppo del capitale umano siano elementi centrali, implica la costruzione di un modello sociale più efficace, perché un ammontare di educazione più elevato e la formazione lavorativa agevolerebbe l’occupabilità e la pari opportunità, elementi per far ripartire lo sviluppo economico e rilanciare la competitività. Un’anomalia italiana rispetto ai grandi paesi sviluppati è lo scarso richiamo dei lavoratori ad alta qualificazione. Un’immigrazione povera ha un impatto negativo sull’immagine complessiva degli immigrati; pertanto valenza strategica di istruzione e formazione professionale per promuovere modelli sociali inclusivi e sostenibili, educazione demografica e sanitaria in termini di salute materno-infantile, promozione della condizione femminile, par condicio, partecipazione delle donne al mercato di lavoro non informale per livellare le marcate disuguaglianze di genere, requisito fondamentale per la convergenza. Obiettivo strategico è promuovere un più efficace e reale partenariato tra i Paesi del bacino del Mediterraneo, per un armonico sviluppo di tutta l’area a livello transnazionale, rafforzando la collaborazione nei settori della formazione professionale e del lavoro tra l’Italia e i Paesi del Mediterraneo, soprattutto quelli della sponda sud.


Sturzo sosteneva che in un sistema troppo statalista e assistenzialista l’iniziativa privata stenta a crescere; quindi occorre abbandonare l’idea di assistenzialismo. Il peso dello Stato non deve essere superiore alla media, perché non si risolvono i problemi con il contributo, ma occorre educare al come fare. A chi chiede cibo anziché dare un pesce è meglio che gli si insegni a pescare!
Sturzo nell’appello ai liberi e forti, riprendendo la rerum novarum, esaltava la dignità della persona umana; quindi l’approccio non deve essere assimilazionista ma multiculturale. L’immigrato non ha voglia di integrarsi perché ciò gli viene imposto dall’alto secondo i canoni dello stato ospitante. L’attenzione alla dimensione transnazionale contrasta con la pretesa di ricondurre l’appartenenza culturale degli immigrati entro gli schemi degli stati-nazione. Inclusione è invece trasformazione sociale rispettando la persona, la dignità e la loro identità, che può essere espressa anche nella religione, con azioni che creano cultura, educazione, formazione, promuovendo associazionismo e attività ricreative. L’immigrato deve essere trattato alla pari, non deve rinunciare alle proprie specificità per adeguarsi ad un modello estraneo, altrimenti ciò diventa imposizione dei Paesi potenti, che si tradurrebbe in presunzione di superiorità culturale e quindi in una svalutazione del patrimonio simbolico dei paesi più poveri. Il fallimento dei modelli assimilazionisti, basati sulla rimozione dei legami sociali e culturali degli immigrati, hanno prodotto diffidenza verso l’idea stessa di integrazione. Al suo posto, invece, dovrebbe trovare spazio l’inclusione e l’incorporazione cioè l’apertura della società ricevente, senza implicazioni culturali o normativi. Si sposta l’obbligo degli immigrati di conformarsi alle aspettative della società ricevente, al dovere e alla responsabilità per queste di aprirsi alle esigenze dei nuovi arrivati, con riconoscimento delle aggregazioni, capaci di offrire luoghi di identificazione e radici culturali. Il modello assimilazionista nega implicitamente autonomia e protagonismo agli immigrati, mentre il modello inclusivo mira alla preservazione dell’ identità culturale che deve essere ricchezza, tutelata e promossa. Occorre evitare la mescolanza perché ogni individuo possiede un’unica identità culturale. L’affermazione identitaria non è negoziabile. L’assimilazione si potrà avere nella seconda e terza generazione. Da respingere anche un multiculturalismo di tipo sentimentale che lede gli interessi degli immigrati stessi. Il modello inclusivo assicura libertà di espressione e di aggregazione, per aiutare gli stranieri a sfuggire al senso di sradicamento e di solitudine determinato dal fatto che all’integrazione nei luoghi di lavoro non corrisponde un’integrazione nel tempo libero e nelle relazioni sociali. Occorre un approccio paritario dove parità non significa legislazione parallela o accettazione di pratiche rifiutate dalla nostra cultura giuridica, come poligamia, circoncisione femminile, status giuridico inferiore per le donne, ma significhi lottare contro le discriminazioni, pensare ad adattamenti normativi o contrattuali per venire incontro ad esigenze che sono quelle di organizzarsi, incontrarsi, praticare la propria religione, promuovere istituzioni culturali ed educative, esprimere liberamente i propri orientamenti culturali.
Ci si chiede perché nessuno chiama immigrati americani, svizzeri e giapponesi residenti in Italia, perché il termine extracomunitario non si applica ai provenienti dai paesi sviluppati, mentre molti continuano a impiegarla per rumeni e polacchi, nonostante siano comunitari.
Dalla metabolizzazione di questa trasformazione sociale dipenderà non solo il destino degli immigrati, che contribuiranno alla redistribuzione demografica e a un fre-no all’invecchiamento, ma anche il grado di civiltà e la qualità della convivenza.

 

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Info Autore
Santina Paradiso
Author: Santina Paradiso
Biografia:
Santina Paradiso è nata a Gangi, in provincia di Palermo, il 22 aprile 1957 dove ha vissuto per 29 anni, fino al trasferimento a Mazzarrone, in provincia di Catania, dove vive e opera. Si è laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Palermo ed è stata iscritta in Storia presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (già Facoltà di Lettere e Filosofia) di Messina. Ha frequentato un corso triennale di studi teologici presso la Scuola Teologica di Base “Innocenzo Marcinò” della Diocesi di Caltagirone e due Master giornalistici organizzati dalla FISC. Ha esercitato la professione di Procuratore Legale presso l’Ordine Forense di Caltagirone ed ha svolto le funzioni di Vice Procuratore Onorario della Repubblica presso la Pretura Circondariale di Caltagirone. In atto svolge funzioni dirigenziali e di Vice Segretario comunale presso il Comune di Mazzarrone. E’ stata membro di commissione, quale esperto in materie giuridiche, in vari concorsi pubblici. A Mazzarrone sin dal 1991 ha intrapreso studi e ricerche di storia locale e sulla figura di don Luigi Sturzo, nonché sulla tradizione popolare. Coltiva anche la passione per la narrativa, la saggistica e la poesia sin dalla giovinezza. Ha partecipato a varie conferenze, eventi e iniziative culturali, in qualità di relatrice, di curatrice di mostre e di componente di giuria, nonché a reading di poesia e di narrativa. Già socia e componente del Collegio dei Probiviri della Nuova Accademia degli Industriosi di Gangi, e di varie Associazioni, anche come socia onoraria, in atto è socia di Accademie, Club di poesia e Associazioni culturali varie e dell’Ass. Storica Lamba Doria di Siracusa, sezione di Caltagirone.
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