Nell’ambito della mostra di Antonio Pizzolante curata da Francesco Tedeschi, lo spazio d’arte Galleria Scoglio di Quarto
Via Scoglio di Quarto, 4 –Milano, in data venerdì 25 giugno p.v., alle ore 17.30, presenta il libro dal titolo PERDAMARIBENTU (pietramarevento) di Stefano Soddu con le fotografie di Giacomo Nuzzo, ed. Scoglio di Quarto, 2021.
Sarà presente Alberto Barranco di Valdivieso autore della prefazione al libro: Piccoli frammenti sentimentali: Un grande scrittore sardo contemporaneo, Salvatore Niffoi, scrive ne “Il venditore di metafore” (2017) che “nella memoria e nel sogno tutto deve restare inalterato”; a tutta prima sembrerebbe che questa locuzione, mettendo a confronto due categorie distaccate nella loro identità, disegni l’immanenza assoluta sia del ricordo che dell’immaginazione.
L’espressione, invece, nasconde l’antifrasi sottile che suggerisce, proprio, l’opposto: sussiste cioè, tra memoria e sogno, la stessa ambigua identità di genere poichè permane un forte legame tra realtà oggettiva del vissuto e significato soggettivo dell’esperienza. L’assimilazione del ricordo costruisce la storia della nostra intima “mitologia” e sarà questa storia che vorremo condividere perché nessuno di noi alla fine desidera essere lasciato da solo nel cammino della memoria.
Dunque siamo tutti autori di un sogno cosciente, che rimpasta i fatti della nostra vita vissuta collegandoli a filo stretto con i sentimenti che ci provocano. Un flusso continuo di piccoli frammenti nel quale tutti quei pezzi di vita si ricompongono secondo un nuovo ordine, risarcendo i nostri percorsi esistenziali di un senso altrimenti sfuggente.
Frammenti sono anche i piccoli racconti dell’estate di Stefano Soddu, scultore del ferro, narratore minimale e artista fieramente sardo. In questa raccolta di scritti, le parole sono brevi pennellate d’acquerello, tratti asciutti in pochi colori - espressione di quella concisione tipica della “sardità” - che lasciano al lettore suggerimenti di esperienze vissute, che siano una visita ad una necropoli, il sapore di un cibo che ricorda l’infanzia oppure l’osservazione delle navi che attendono l’attracco in porto.
In Soddu non c’è alcuna volontà di avvolgerci in complesse descrizioni o ascrivere il lettore al ruolo di interprete di suggestioni simboliche, non si ravvisa neppure la diegesi di una cronaca completa.
Una scelta narrativa intima, di cui si percepisce la discriminante sentimentale, costruita sulla estemporaneità e declinata per assemblaggio di frammenti di immagini, in un sistema compositivo scarno che conserva il candore della leggerezza. La stessa essenzialità egli la realizza anche nelle sue opere “ambientali”, assemblate sul posto con pezzi di natura e oggetti abbandonati, elementi ri-trovati e ri-conosciuti.
Queste opere di “land-art”, immerse nel paesaggio naturale dell’Isola, sono eventi che appartengono al mondo dell’effimero, come possono essere l’impronta di una mano sulla sabbia o una fragile struttura di legni sul bagnasciuga. Gli interventi icastici di Soddu, fotografati da Giacomo Nuzzo, esprimono l’immediatezza dell’”happening” perchè sono esperimenti di scultura che esistono, non tanto nell’articolazione plastica della materia utilizzata, bensì attraverso il valore del gesto, impresso nello spazio e, soprattutto, nel tempo; segnali di presenza e di passaggio momentaneo dell’autore, inevitabile allegoria di ciò che il nostro fare realmente lascia di sé.
Una “land-art” di matrice naturalista, quella di Soddu, vicina ad artisti come Robert Smithson (1938-1973) o all’italiano Giuseppe Penone (1947), e non certo al “camp” surrealista, per esempio, di Claes Oldenburg (1929) o del Dennis Oppenheim (1938-2011) degli anni Ottanta-Novanta. Opere, quelle di Soddu che, essendo legate al tempo della situazione, rimarranno solo impronte fotografiche, poichè nella realtà non sono durate che poche ore, asciugate dal vento e disperse dal mare.
In questo libro sono pubblicate, inoltre, le pitto-sculture che Stefano Soddu ha ideato durante lo stesso periodo: le “Braci”, così abbiamo inteso chiamarle con l’autore, sono lavori assemblati su schienali di cornici recuperate, con pezzi di carbone, legno e acrilici, nelle quali si legge il gusto per il silenzio e nessun compiacimento per la ridondanza.
Gli oggetti si presentano come piastre scure, con agglomerazioni, che sembrano far trasparire sotto la loro superficie bruciata, un grande calore, una brace incandescente, creata con l’effetto di un colore vermiglio che emerge appena dal bruno dominante, dalle graffiature esposte sulla pittura che fanno emergere il rosso.
Le opere nascono durante la giornata, spontaneamente, nel mentre di un’azione qualsiasi ma che in Soddu innesca la suggestione creativa. Ecco allora che, per esempio, guardando la griglia incandescente mentre da buon sardo predispone le carni per la cena conviviale, i carboni ardenti stimolano l’immaginazione dell’artista e quel fare si traduce in immagini assolute che assumono un carattere evocativo, la pietra che annerisce mentre brucia dall’interno, la fiamma compressa nella materia, che a tratti brilla infinitesima, conservando il “segreto” di un calore che non è ancora “bianco”, ma che rimane minacciosamente sotto traccia.
Le composizioni sono articolate da nette partizioni tra i campi del supporto; le conglomerazioni di materia (carbone, carta, legno) fanno da contralto alle superfici dipinte, libere da applicazioni, secondo una disposizione ordinata per forme entropiche ed elementari come onde, cerchi, spirali, linee, cumuli. Questi lavori, nell’ottica della fascinazione per il “senso della materia”, rimangono nella linea di alcune sperimentazioni di pitto-scultura, e nelle ceramiche, di Lucio Fontana (1899-1968), negli impasti bi-cromi di Leoncillo Leonardi (1915-1968) degli Anni Cinquanta, ma soprattutto nella ricerca tattile e ossido-cromatica di Nanni Valentini (1932-1985).
E poi vi è la questione del fuoco. In Soddu la malia verso il fuoco è sempre stata molto forte, così come la suggestione per gli antichi manufatti euboici e neolitici dell’antica Sardegna, tracce di civiltà arcaiche che con il fuoco e i metalli forgiarono culture complesse, ancora poco conosciute.
Una terra, la Sardegna, che suggestiona Stefano Soddu verso l’incanto del racconto di magie nascoste nelle antiche pietre dei coni nuragici, nei volumi massicci delle statue dei guerrieri giganti, nelle larghe spade di rame arsenicale (armi, forse, dei mitici guerrieri di Shardana giunti fino all’antico Egitto), negli spessi paramenti lapidei bruciati dal sole delle torri dei Giudicati e delle fortezze aragonesi, ma soprattutto nelle forme della natura che sa fondere asprezza e delicatezza come in nessun altra isola del bacino mediterraneo.
Non sono solo, però, le architetture o il paesaggio che restituiscono a Soddu questa tensione immaginifica, più ancora vi è qualcos’altro perché si palesa un “genius loci” che l’artista percepisce nell’ambiente e che, ogni qual volta egli ritorni, sviluppa nel suo essere un senso profondo di comunione, sensoriale e intellettuale, con l’Isola.
Le piccole storie raccolte in questo libro, i suoi interventi d’arte “di paesaggio/di passaggio”, le pitto-sculture che magnificano il calore del fuoco, rappresentano l’antico inganno del poeta che cerca non la verità ma il senso di una possibile metafora di tutto ciò che di assoluto, nella realtà, gli sfugge.