di Stefano Dentice
Cantante vulcanica, profondamente sensibile, eclettica, dalla grande sensualità timbrica, Petra Magoni è una fra le artiste italiane più complete e affermate degli ultimi vent’anni, nonché fortemente provocatoria. Il suo magnetismo scenico conquista e incanta il pubblico di tutto il mondo da circa trent’anni, grazie al suo pathos, al sottile senso dell’ironia e a un’innata creatività che la contraddistingue. Venerdì 14 febbraio alle 21:00, presso il Teatro Massimo di Pescara, sarà impegnata in concerto al fianco di Andrea Dindo, eccellente pianista e fine direttore d’orchestra, nel progetto Petra canta Brecht – Omaggio a Milva, uno spettacolo incentrato sui testi del poeta tedesco Bertolt Brecht, con musiche di Kurt Weill, volto a condannare la società di quel tempo in cui i valori morali erano totalmente assenti, dove la violenza inaudita era all’ordine del giorno. La cantante toscana racconta la gestazione e descrive i tratti distintivi di questo progetto così toccante.
Petra canta Brecht – Omaggio a Milva è un progetto in duo con il sopraffino pianista classico, nonché brillante direttore d’orchestra Andrea Dindo. Il fil rouge di questo spettacolo è un atto di denuncia in musica, da cui emerge la necessità del poeta tedesco Brecht di stigmatizzare una società totalmente priva di valori morali e incline a una violenza inaudita. Da interprete, prima che da cantante, quanto senti il peso emotivo di raccontare e descrivere in note temi così delicati e importanti?
«Con Andrea Dindo abbiamo già un progetto intitolato Canzoni in Bianco e Nero dove affrontiamo Kurt Weill nelle sue versioni, che partì dal cabaret berlinese per poi arrivare a scrivere veri e propri standard. Ma i testi legati proprio al periodo del cabaret berlinese mi avevano incuriosito molto, quindi ero molto interessata a fare un concerto principalmente dedicato a Bertolt Brecht. Trovo che questi testi siano estremamente attuali, per cui ho sentito l’urgenza e la necessità di raccontarli. Sono storie scritte circa 100 anni fa, ma in realtà sembrano scritte oggi».
Al tuo fianco figura Andrea Dindo, che ti accompagna al pianoforte in questo progetto. Soprattutto dal punto di vista comunicativo, visto e considerato che lui viene dalla musica colta, mentre tu sei una cantante decisamente trasversale sotto l’aspetto stilistico, come sei riuscita a trovare la giusta alchimia interpretativa con lui?
«L’alchimia con Andrea Dindo è nata inizialmente per telefono, prima ancora dell’incontro di persona. Avremmo dovuto esordire con Canzoni in Bianco e Nero nel 2020, ma ovviamente è stato tutto rimandato per via del Covid. Poi abbiamo tenuto questo concerto il 6 dicembre scorso a Verona. Sì, veniamo da due mondi musicali diversi. Io ho molto da imparare da lui e viceversa. Inizialmente ero intimorita dalla sua figura di musicista classico, dal suo curriculum, ma in realtà ci siamo accorti entrambi che c’è sempre qualcosa da imparare. Ci siamo capiti subito già telefonicamente in epoca Covid, trovandoci d’accordo su molti argomenti. Questo ci ha unito molto sul lato umano. Io non potrei mai collaborare artisticamente con qualcuno con il quale non vado d’accordo. Per creare melodie e accordi bisogna essere d’accordo (sorride, ndr). Avere lo stesso punto di vista, la stessa visione delle cose, esserci confrontati su quello che stava accadendo, a prescindere dalla musica, ci ha unito molto. Grazie (per usare un eufemismo) a queste chiacchierate telefoniche, in cui si parlava di altro, ci siamo trovati d’accordo al 100%. Si è creata una fiducia reciproca, una gran voglia di ascoltarsi, nonostante la differente provenienza musicale. In alcuni casi lui suggerisce delle cose a me, in altri sono io che fornisco delle indicazioni a lui. Poi, a un certo punto, mi sono sentita libera di esprimere a lui eventuali dubbi di carattere musicale per far sì che il tutto migliorasse, anche per via della mia esperienza artistica trasversale. Mi rendo sempre conto di quando un qualcosa potrebbe funzionare meglio, invece di seguire pedissequamente uno spartito. Preferisco che ci si lasci trasportare dalla musica e dalle parole, sempre importanti soprattutto in questo progetto incentrato sui testi di Brecht. Fra lui e me si è creato rispetto reciproco e affetto. E questo spettacolo, per me, è un qualcosa di necessario».
Nel lavoro di (ri)lettura delle composizioni autografate da Kurt Weill con testi di Bertolt Brecht, attraverso quale processo sei riuscita a fornire una tua interpretazione strettamente personale che ti ha permesso di discostarti dalle versioni di questi brani cantati da Milva?
«Mi sono discostata dalle versioni di Milva perché non le ho ascoltate. Ho lavorato molto sulle partiture, su ciò che era stato scritto. Ma spesso lei, seppur nella sua grandezza interpretativa, talvolta recitava più che cantare nel vero senso della parola. Se intendo apportare delle variazioni, lo faccio a modo mio. Non mi interessa scopiazzare Milva. Certo, si chiama Omaggio a Milva perché è stata lei a interpretare queste canzoni con Giorgio Strehler, ad esempio. Ascoltare lei mi avrebbe portato ad assorbire delle cose non presenti nelle partiture. Io, invece, volevo seguire lo spartito, ma allo stesso tempo sentirmi libera di apportare delle mie variazioni personali. Prima della data del 2 ottobre a Padova, Andrea Dindo e io avevamo fatto solo tre prove. Dopo la terza prova, considerando la difficoltà nel memorizzare questi brani, ho riscontrato qualche piccola difficoltà. Il concerto di Padova è andato tutto sommato bene, seppur con qualche miglioramento da apportare. La prossima settimana faremo altre prove a Verona, anche per aggiungere qualche altro pezzo al repertorio».
Focalizzando l’attenzione proprio sul repertorio, quali sono le maggiori difficoltà tecniche e interpretative concernenti questo omaggio?
«Sì, ci sono delle difficoltà tecniche. Un po’ come succede nel repertorio di David Bowie. Apparentemente sembrano brani leggeri, orecchiabili. Invece, quando si affronta il pezzo, si presentano diverse difficoltà di carattere tecnico. Ma ciò che mi interessa davvero è affrontare la figura di Brecht, perché come dicevo è molto attuale: si parla di guerra, prostituzione, tutto ciò che abbiamo oggi sotto i nostri occhi».
Scegliere una canzone in particolare che possa rappresentarti di più è sempre difficile. Ma in questo caso, nel tributo a Milva, c’è un brano attraverso cui ti rispecchi maggiormente specie sul piano umano?
«Non c’è una canzone in particolare che mi rispecchi, perché si affrontano tematiche che non mi hanno mai riguardato personalmente. Ad esempio, mi piacciono molto le ninna nanne. Ma la canzone a cui tengo di più, oltre a La Leggenda del Soldato Morto (in verità una poesia che mi ricorda molto ciò che succede in Ucraina, con gente malata che viene mandata in prima linea), è La Ballata di Chi Vuol Star Bene al Mondo, che parla di chi preferisce stare zitto dinnanzi alle ingiustizie, di chi mette la testa sotto la sabbia come uno struzzo. In questo brano si grida «Heil». Qui io faccio il saluto con il braccio destro alzato, perché tutti gridano «Heil». Io non sono uno struzzo. Questo è un brano da brividi, soprattutto per la sua attualità. A un certo punto il testo dice: «I colonnelli studiano nuove guerre e per viltà nessuno muove un dito. Io, a testa alta e con il petto in fuori, ho detto evviva i nostri difensori. I deputati dicono agli elettori che grazie a loro tutto cambierà, ma non cambia niente. Ma io dico subito: «La colpa non è loro, è la realtà». Io trovo che questo testo sia pazzesco. “Star bene al mondo” vuol dire adeguarsi, tacere contro il sistema. Questo è l’opposto rispetto a quello in cui credo. Vorrei che chi mi ascolta capisse che a me non piace per nulla tacere contro il sistema».
Venerdì 14 febbraio alle 21:00, presso il “Teatro Massimo” di Pescara, sarai impegnata con questo progetto in un concerto organizzato dalla “Società del Teatro e della Musica L. Barbara” (Pescara). In base alla tua esperienza, trattandosi di un repertorio e di uno spettacolo di grande spessore culturale e sociale, che tipo di reazione emozionale ti aspetti dal pubblico?
«Questo è uno spettacolo ostico per i temi, ma anche a livello musicale. Però, inserendo nuovi brani, Andrea Dindo e io cercheremo di organizzare una scaletta un po’ più “movimentata”. Inizialmente, la prima parte era piuttosto complessa sotto tutti i punti di vista, mentre la seconda era musicalmente più vivace ma sempre con testi molto profondi. Vorrei che la gente aprisse gli occhi e capisse che noi non stiamo facendo un omaggio a Milva proponendo musica superata, vecchia, demodé. Assolutamente no! Desidererei che le persone tornassero dal concerto ponendosi delle domande, degli interrogativi, comprendendo che queste tematiche, lo ribadisco con forza, sono attuali anche se trattate 100 anni fa. «La storia insegna, ma non ha scolari» (citazione di Antonio Gramsci, ndr). Invece la storia, anche musicalmente parlando, dovrebbe davvero insegnarci qualcosa. Io vorrei trasmettere questo concetto. Spero, insieme ad Andrea Dindo, di riuscirci».